STRADE PERDUTE
Di Giovanni “Fusco” Pinotti
Riguardare Strade perdute è stato un grave errore.
Non fraintendetemi, con questa lapidaria sentenza non ho affatto intenzione di screditare la pellicola, ormai ventottenne, di David Lynch, né tantomeno di sminuire la grandiosità di una delle più riuscite opere del geniale artista di Missoula (la mia preferita, tra l’altro); sto facendo piuttosto riferimento all’approccio adoperato per la scrittura di questo breve intervento. È per me ormai consuetudine, infatti, rivedere il film sul quale porterò il mio piccolo contributo critico, analizzarlo nei suoi numerosi dettagli, appuntarmi tutto quello che avrò intenzione di approfondire. Questa prassi, tuttavia, non poteva dimostrarsi più inadeguata per Strade perdute.

È lo stesso capolavoro lynchiano a comunicarmelo, quasi metacinematograficamente e dopo forse neanche venti minuti dall’inizio della vicenda, attraverso la bocca di Fred Madison (Bill Pullman): “I like to remember things my own way. How I remembered them, not necessarily the way they happened” (“Mi piace ricordarmi le cose a modo mio. Nel modo in cui io le ricordo, non necessariamente nel modo in cui sono successe”). Non c’era quindi bisogno di alcun ripasso, di nessun tipo di nota e appunto; prima che rovinassi la purezza della prima esperienza con un incauto rewatch, Strade perdute esisteva già concretamente dentro di me, nei miei ricordi, in tutte le straordinarie e incomprensibili sensazioni che era riuscito a trasmettermi. In questo caso, rinfrescare la propria memoria corrisponde perciò a una corruzione di un’esperienza genuina, tanto quanto l’affidamento a fonti esterne al film ai fini della sua interiorizzazione.
Confessato questo errore iniziale e tenendo ben presente quanto sia complicato restituire attraverso la parola scritta l’autenticità di un’opera di questa portata, cercherò in ogni caso di fare del mio meglio per descriverla, senza scaletta né mappe concettuali. Quasi uno stream of consciousness, se volete.
Ritornando alle parole pronunciate da Fred (e figlie della penna di Lynch e dello scrittore e poeta Barry Gifford), quale frase potrebbe descrivere meglio non solo il film, ma la poetica lynchiana stessa? Quale descrizione migliore potrebbe essere attribuita alla sfrenata e libera potenza creativa del regista? Lynch era noto per incoraggiare lo spettatore allo sforzo interpretativo, in modo da evitare qualsiasi tipo di univocità delle sue opere; come in quasi tutti i suoi film, anche in Strade perdute (in originale Lost Highway) non esiste una vera e propria lettura definitiva. Certo, su internet e in diversi libri1 troverete fior di analisi, dalle più precise alle più strampalate: l’unica cosa che le accomuna è che nessuna di queste può affermare con piena e assoluta certezza di avere la chiave di lettura finale del film. Forse Lynch stesso reagiva a questa
continua ricerca di significato nello stesso modo in cui il Mystery Man risponde ai quesiti sulla sua identità: a volte con un inquietante silenzio, altre con un’ubiqua risata al telefono.
Caratterizzare Strade perdute come un neo-noir è solo parzialmente corretto: l’ambientazione moderna, la presenza di un giallo da risolvere, l’atmosfera cupa e misteriosa, i toni psicosessuali e la presenza di una (o due?) femme fatale lascerebbero pensare tranquillamente a un incasellamento del lungometraggio in questo genere; eppure, anche la limitazione del film a questa convenzione mistifica fino a rendere vane tanto le intenzioni quanto la natura stessa dell’opera, decisamente più irregolare e fuori dagli schemi sia per forma che per sostanza. Piuttosto, Lynch sfrutta e manipola il setting neo-noir per creare qualcosa di inedito, un viaggio infinito e cinico che, più che ai detective, alle femme fatales e ai crimini, rimanda all’eterno ritorno, alla cupa lotta interiore ed esteriore tra peccato e desiderio, alla drammatica e futile ricerca della propria identità.
Fred e Pete (Balthazar Getty), al contempo diversi e un tutt’uno, sembrano intrappolati in una battaglia senza alcuna speranza di vittoria, quasi come marionette fatte danzare ora da Renee/Alice (Patricia Arquette), incarnazione stessa del desiderio e della pulsione sessuale, ora dall’uomo misterioso (Robert Blake), il quale funge da antagonista onnipresente, una presenza il cui aspetto pare rimandare alla Morte bergmaniana e il cui ruolo pare essere a volte quello di tormentatore, altre quello di Caronte; dotato di un’essenza evidentemente soprannaturale, questo criptico e angosciante agente sembra infatti traghettare Fred e Pete attraverso le loro distinte ma parallele esistenze infernali, traendone spesso un piacere sadico.

“Nell’estremo Oriente, i condannati a morte vengono mandati in un posto da cui non possono scappare”: in questo modo l’uomo misterioso ammonisce al telefono Pete, in una delle poche occasioni in cui offre generosamente una (comunque vaga e criptica) possibile spiegazione alle enigmatiche vicende.
Paura, sensualità, identità, mistero: queste potrebbero essere le parole chiave di Strade perdute, o perlomeno le sensazioni provate sia dai personaggi che dallo spettatore, sia evocate dalle vicende che emanate dal film stesso.
La paura è quella dovuta all’incertezza, a ciò che si nasconde nel buio entro cui Fred e Pete si specchiano e con cui interagiscono, al frenetico, implacabile e interminabile avanzare della strada, a malapena illuminata dai fanali dell’automobile; i piani sequenza e le panoramiche, accompagnati da lenti e lugubri movimenti di macchina e da inquietanti composizioni dei quadri, sono talmente ansiogeni ed efficaci nell’incutere terrore da poter appartenere a un film horror.
La sensualità è quella della dark lady di hitchcockiana² memoria Renee/Alice, seducente manipolatrice stanca di essere vittima delle angherie di uomini possessivi e violenti. Le sue forme sinuose catturano e imbrigliano in una ragnatela letale la fragile psiche di Fred/Pete, portando la storia alla sua naturale e ciclica conclusione ed evidenziando il tanto discusso legame tra amore e morte, tra sesso e violenza, tra ossessione e sopraffazione.
L’identità ha qui funzione ambivalente, poiché significa sia la ricerca dell’unicità della propria persona, sia l’assurda corrispondenza diretta e perfetta con un’altra vita (o forse la stessa vita). Reincarnarsi in qualcuno, rivivere la stessa esperienza senza averne memoria, dissociarsi da se stessi; è proprio questo che precipita il protagonista in una situazione di crisi, dato che le sue certezze si sbriciolano e che la sua stessa esistenza pare essere nient’altro che un’eterna e infernale condanna.
Il mistero, infine, è ciò che anima l’intero film, l’atmosfera che circonda tutte le scene. La tenebrosa e buia fotografia, dovuta all’ambientazione prevalentemente notturna della storia, ammanta l’opera di un’imperscrutabilità e inquietudine tali da porci in un perpetuo stato d’ansia. Lynch si serve del non-visto non solo per quanto riguarda la messinscena, ma anche in merito ai personaggi, al loro vissuto, alle loro motivazioni; il Maestro capisce quanto intensamente dipendiamo dalla chiarezza, quanto disperatamente abbiamo bisogno di spiegazioni che (letteralmente) illuminino l’oscuro, che lo rendano comprensibile e digeribile. Soffocando questo bisogno, proprio tanto dell’uomo quanto dei protagonisti del film, Lynch, con una mossa quasi lovecraftiana, ricorda nuovamente all’essere umano quanto piccolo e insignificante sia rispetto alle orrorifiche e mastodontiche forze che regolano l’universo.
Strade perdute è tutto ciò che ho scritto e, contemporaneamente, il contrario di tutto questo. Uno spettatore ingenuo e superbo che si approccia per la prima volta al cinema di Lynch, nel tentativo di poterlo decifrare e superare come qualsiasi merce usa e getta, sarà inevitabilmente destinato a sbattere violentemente il capo contro un muro concettuale e spirituale a prima vista invalicabile. Come ormai è (giustamente, a mio avviso) vulgata, del cinema di Lynch si può solo fare esperienza, un’esperienza che è al contempo puramente personale, in quanto generatrice di un’interpretazione individuale, e perfettamente universale, poiché parla della problematica condizione umana in diverse sue sfaccettature.
Grazie a questa sua inimitabile natura, David Lynch non morirà mai.
Oppure tutta questa premessa era per pararmi il fondoschiena e in realtà non ho capito una ceppa.
Decidete voi.

¹A tal proposito, consiglio l’ottimo Valerio Monacò, David Lynch. Il tempo del viaggio e del sogno, Edizioni NPE, 2018.
²Esplicito è il riferimento a La donna che visse due volte (Vertigo, Alfred Hitchcock, 1958).
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