MUTO
I PROSCRITTI
Victor Sjöström tra natura e destino
Di Edoardo Sampaoli
“La loro unica legge era il loro amore”.
Di amore, natura, destino, povertà, autorità e pulsione ci parlava Victor Sjöström centosette anni fa, nel 1918, in un film dalla durata notevole per l’epoca, centodieci minuti: I proscritti (Berg-Ejvind och hans hustru).
Islanda, XIX secolo. Kári (Victor Sjöström), dalle colline del sud, incontra Arnes (John Ekman), a cui chiede se sa dove potrebbe trovare lavoro. Arnes lo indirizza a una fattoria gestita da una vedova, Halla (Edith Erastoff). Dopo essersi inserito nella vita della fattoria, innamorato e corrisposto da Halla, Kári viene riconosciuto a una messa come Ejvind, un ladro in fuga, e viene messo in allerta lo sceriffo del villaggio, nonché cognato e vicino di casa di Halla, Björn (Nils Aréhn). Kári/Ejvind si confessa ad Halla e i due scappano per le montagne, vivendo in fuga come fuorilegge. Rincontreranno Arnes, che vivrà con loro per un periodo finché il suo amore per Halla lo costringerà ad allontanarsi. Dopo anni, in un inverno molto rigido, i due moriranno nella neve.
Sjöström gira la versione cinematografica de I proscritti da una pièce del poeta e drammaturgo islandese Jóhann Sigurjónsson, che già aveva precedentemente portato sul palcoscenico come regista teatrale nel 1911, elevando la potenza naturalistica come solo il mezzo cinematografico poteva e dividendo il film, come anticipato nella prima didascalia, in sette atti.
La pellicola, che doveva essere girata in Islanda ma a causa della guerra fu girata nella Lapponia svedese, prosegue la tradizione naturalista di Sjöström iniziata con C’era un uomo (Terje Vigen, 1917), in cui il mare era portatore di simbolismi e significati, e che proseguirà anche con Il vento (The Wind, 1928), dove quel ruolo verrà assunto dalla sabbia. In questo film, sono le colline e le montagne rocciose che assumono il ruolo di co-protagoniste, insieme a un immaginario della natura che viene costantemente usata come metafora della vita (“L’amore era il sole del loro amore”) o semplicemente menzionata (“Quando è nata, il sole splendeva e il cielo era mite e azzurro”).

Ma la natura per Sjöström in fondo è indifferente alla vita umana e come ne ritrae gli aspetti più maestosi, egli ne ritrae anche i più duri. In un finale tragico, Halla esce dalla capanna costruita dalla coppia per ripararsi, in un momento in cui Kári era uscito per la legna, camminando all’orizzonte e scomparendo nella bufera. Qui la camera rimane a riprendere per qualche secondo, senza il corpo nell’inquadratura (fig. 1), ad amplificare il concetto di natura indifferente, espediente d’altronde usato anche in C’era un uomo, in cui rimangono le onde del mare senza più la presenza dell’uomo.
Ma non è solo di natura che tratta il film, ma anche del concetto di destino (“Nessuno può sfuggire al suo destino, nemmeno correndo più veloce del vento.”), che più volte viene menzionato dai personaggi in rassegnazione a una vita già segnata dall’inizio.
Importante anche il concetto di religione che, annunciato più superficialmente da una messa ad inizio film, ritorna in modo prepotente alla fine, quando, di fronte a una natura maligna e a un destino beffardo, non rimangono che la fede e quel Dio silenzioso a cui ci si appella in preda alla disperazione (l’ultima battuta che chiude il film è proprio “Dio onnipotente!”).
E infine, il concetto di amore, forse il filo rosso del film: Halla, dopo la scoperta della reale identità di Kári-Ejvind (scena su cui ci soffermeremo meglio fra poco), sceglie comunque la fuga con lui, in nome di un amore, provato per un criminale, che è talmente forte da diventare anticonformista per i tempi.
“La loro unica legge era il loro amore”: come già citato all’inizio, ciò sancisce l’inizio della vita da reclusi per la coppia; i due vengono sospesi in questa natura, per ora idilliaca, che rispecchia lo stato emotivo dei personaggi, avvolti in una fiaba senza tempo e senza spazio.
Menzione a parte merita il personaggio di Arnes, che da una prima conoscenza superficiale all’inizio del film diviene più importante nella seconda parte, quando incontra nuovamente Kári e Halla. Arnes rimane a vivere con loro nelle colline, ma ben presto sorge un problema, ovvero la sua attrazione verso Halla. Con una scena che dimostra le grandissime capacità di Sjöström, Arnes, di ritorno dalla pesca con Kári, trova Halla fare il bucato con una veste scollata: con un campo-controcampo, percepiamo la sua pulsione sessuale (fig.2), una pulsione che esplode quando, più avanti nel film, in una scena in cui Kári cade da un dirupo, Arnes lancia una corda per tirarlo su e ha l’impulso di tagliare la corda per liberarsi del marito. Arnes deciderà poi di andare via dal loro accampamento per il suo e il loro bene. Ritornerà, nella sua ultima apparizione, quando, vedendo poco dopo essersene andato che lo sceriffo sta arrivando ad arrestare la coppia, tornerà indietro di corsa per avvisarli. Arnes è dunque un personaggio importante per due motivi: il primo, come abbiamo citato, per l’attribuzione a lui della pulsione sessuale, che qui implode come pochi film dell’epoca, dove ancora era tabù la raffigurazione del corpo femminile da una parte, ma soprattutto l’occhio degli uomini su quest’ultimo dall’altra.

Il secondo motivo è che a lui viene attribuito un finale di redenzione, con il salvataggio dall’arresto, diventando tra i pochi personaggi nel cinema di Sjöström ad avere una salvezza.
Ma non sono solo le tematiche a rendere questo film tra i migliori di Sjöström e del periodo muto in
generale, ma anche le sue conquiste tecniche.
Come premesso poco sopra, prendiamo ad esempio la scena della confessione di Kári-Ejvind: la sequenza viene affrontata con un lungo flashback, tecnica ancora poco sperimentata all’epoca, che Sjöström perfeziona e gestisce in modo impeccabile, come testimonia il fatto che a metà ritorna anche al presente, immortalando la reazione dei due personaggi per poi ritornare al flashback.
Un altro aspetto da non sottovalutare è la recitazione: Sjöström è divenuto importante anche per le sue interpretazioni e quelle degli attori come più sottili, che risultano molto moderne e in contrasto con le caricaturali e decisamente teatrali performance dei colleghi del periodo.

Infine, non si può non menzionare il direttore della fotografia, Julius Jaenzon, uomo di punta della Svenska Biografteatern (maggior casa di produzione svedese in patria), che opta per contrasti con linee di luci sinuose (fig. 3) che creano talvolta una divisione tra i corpi e la natura, altre volte una fusione a tratti panica tra uomo e natura.
Sjöström fu tra i primi autori ad avere quella sensibilità che si sarebbe raggiunta e consolidata solamente più tardi, e ne sono testimoni anche le righe di Carl Theodor Dreyer, all’epoca appena agli inizi della regia e ancora soprattutto critico cinematografico:
Mentre da noi [in Danimarca] prosperavano i film d’ambiente aristocratico, Victor Sjöström s’incamminava per tutt’altra strada impegnandosi in due opere inconcepibili a quel tempo: con Terje Vigen e Berg-Ejvind och hans hustru Sjöström ebbe il coraggio di andare contro corrente in tutti i campi, e fu forse il primo regista in tutta la Scandinavia a capire che se i film devono avere un valore culturale non possono essere fabbricati in serie. […] Grazie a Sjöström il cinema è riuscito a entrare nella terra promessa dell’arte. E anche la sua fede in certe cose è stata ricompensata: la buona letteratura ha trionfato sul romanzo d’appendice, la vera arte drammatica sulla recitazione marionettistica, l’atmosfera sulla tecnica.
Si era solo all’inizio della sua carriera e già alcuni parlavano di un autore che avrebbe imposto la sua personalità nella storia del cinema; si può dire che fu proprio quello il caso.
“L’amore rende buono un uomo e malvagio un altro”.
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