N2 2025

THE BRUTALIST

Di Riccardo Morrone

In uno dei primissimi (cronologicamente) shots in terra americana della famiglia Corleone (all’inizio de Il Padrino – Parte II, in originale The Godfather Part II, Francis Ford Coppola, 1974), appare il piccolo Vito Andolini, in quarantena ad Ellis Island, affacciato alla finestra della sua stanza, e nel riflesso del vetro intravediamo – attraverso un’intuizione folgorante di Coppola e del direttore della fotografia Gordon Willis – l’oggetto che sta catturando il suo sguardo: è la Statua della Libertà, il simbolo per eccellenza di quella Land of Freedom nella quale ha appena messo piede. Allo stesso modo, la Statua della Libertà giganteggia anche nell’overture così caotica e avvolgente di The Brutalist (Brady Corbet, 2024), ma stavolta ribaltata, messa sottosopra, come a rovesciarne il valore simbolico gettando un sinistro presagio sul suolo che il nostro protagonista sta per calpestare. È questa la limpida premessa nella quale si cementifica, fin da principio, la potenza iconoclasta delle immagini di Corbet e del suo maestoso progetto.

Vincitore del Premio speciale per la regia alla 81a Mostra del cinema di Venezia, il regista Brady Corbet, al suo terzo lungometraggio, scolpisce la biografia immaginaria dell’architetto ungherese László Tóth (Adrien Brody), sopravvissuto all’Olocausto e immigrato negli States in cerca di fortuna (o forse solo di pace). Storia di un esule tormentato ed epopea di un genio visionario, The Brutalist riesce nell’impresa di mantenere, nonostante la durata fluviale e dilatatissima, un ritmo costantemente teso, nel lento crescendo di una dissonanza lontana ma tangibile. A New York, poi in Pennsylvania (la «Land of decision», come viene chiamata) e, in particolare, nei ristretti e claustrofobici confini geografici di Doylestown, prende lentamente vita un sottile tessuto di conflitti quotidiani, piccole cattiverie sotterranee e “trasparenti”, volti di una violenza subdola e strisciante. Si rivela così un clima di intolleranza profondo e tenace che affiora negli atteggiamenti della famiglia Lee Van Buren (un cognome che tradisce una chiara discendenza olandese, come quello del Presidente attualmente in carica), e non solo: dall’ego opprimente del lunatico magnate Harrison (Guy Pearce nel ruolo che vale una carriera) alla viscida presenza di suo figlio Harry (Joe Alwyn), quest’ombra inquietante non risparmia nemmeno i legami di sangue, come testimonia il cugino americanizzato Attila (Alessandro Nivola).
«This place is rotten, the landscape, the food we eat, the whole country is rotten», dice ad un certo punto sua moglie Erzsébet (Felicity Jones), rendendo così esplicito ciò che le geometrie di Corbet avevano cercato di delineare fin dall’inizio, la natura corrosiva e bulimica dell’America postbellica, una terra della menzogna e del risentimento che non risparmia nessuno.

Il secondo capitolo del film s’intitola «The Hard Core of Beauty», il nocciolo duro della bellezza. O anche l’estremismo (“hardcore”) della bellezza. Un concetto che un protagonista-mondo come László sembra incamerare alla perfezione, sempre diviso tra il brutalismo delle sue creazioni e la brutalità del suo trascorso, tra le aspirazioni di grandezza e gli impulsi (auto)distruttivi. In tal senso, la performance assoluta di Adrien Brody restituisce con magnifica esattezza l’angustia del groviglio mentale in cui László è rinchiuso, la profondità del suo trauma e l’impeto del suo genio. D’altronde, a ben vedere, The Brutalist non è altro che l’esplorazione delle diverse maniere in cui ciascuno affronta ed elabora le cicatrici dell’anima, quelle ferite che il Novecento ha inevitabilmente inciso su alcuni dei suoi figli. Ed è per questo motivo che, a fianco di László, spiccano la resilienza di Erzsébet e il silenzio ostinato di sua nipote Zsófia (Raffey Cassidy), due modi altrettanto intimi di reagire ad una sofferenza indelebile. È dunque l’intera pellicola, come il suo protagonista, a rimanere sempre sospesa tra luce e tenebre, una tensione visivamente accentuata nella parte finale dall’opposizione tra il bianco e il nero, con l’eleganza e la purezza quasi mistica del marmo di Carrara da una parte e l’oscurità opprimente delle cave e dei cunicoli e il freddo oblio dell’eroina dall’altra. E soprattutto, l’ambizione colossale del progetto di László si riflette nel sapore quasi anacronistico dell’opera smisurata di Corbet, uno spettacolo cinematografico di 215 minuti offerto nel formato 70mm VistaVision e capace di regalare brani di rara intensità, come la sequenza che precede l’intermission nella quale la voce di Erzsébet s’intreccia ad uno spot che promuove l’acciaio della Pennsylvania. Quasi sette anni di lavorazione e un budget inferiore ai dieci milioni di dollari per un’impresa produttiva sbalorditiva, che con tutta probabilità non riceverà il riconoscimento che meriterebbe da parte dell’Academy, nonostante le dieci candidature agli Oscar.

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Comments

4 risposte a “N2 2025”

  1. Avatar milù
    milù

    bravissimə, ottimo lavoro, super interessante e completo!

  2. Avatar tami
    tami

    articolo bellissimo 🙂

  3. Avatar Camelia
    Camelia

    Love it🤍🤍
    Complimenti

  4. Avatar Edgardo Pistone
    Edgardo Pistone

    Grazie mille delle parole così ben scritte e puntuali.

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