AMICI PER LA PELLE
Di Gianluca Meotti



Nel 1917, Carl Laemmle è alla disperata ricerca di un regista a cui affidare una serie di western per competere con le altre grandi case di produzione. La Essanay aveva “Broncho Billy” Anderson, la Selig Polyscope Tom Mix e la Triangle Rio Jim. Anche la Universal voleva il suo cowboy e ingaggiò Harry Carey, un attore di teatro che interpretava gli avventurieri del West nei melodrammi di repertorio e che in gioventù era stato un ‘rough rider’. Poiché i registi più quotati della casa (Lois Weber, Allen J. Holubar, Stuart Paton, George Lessey) sdegnavano questo genere fondato su esercizi equestri, non fu difficile a Jack (John) Ford conquistarsi le simpatie di Laemmle e dirigere il suo primo film.
Per i tre anni successivi, Jack/John dirigerà circa trenta film per la Universal, fra i quali il suo primo lungometraggio, Centro!(Straight Shooting, 1917). Dopo la fine del contratto con Laemmle, Ford firmò per la Fox, girando come primo film Amici per la pelle (Just Pals, 1920).
Come sempre gli accadeva in quel periodo, e come sarebbe spesso successo anche in seguito, la storia è tratta da un testo letterario, in questo caso di John McDermott, e porta in scena il tenero rapporto fra due outsider di età molto diverse. Il tema verrà ripreso in uno dei film più famosi degli anni Venti, Il monello (The Kid, 1921) di Charlie Chaplin, ma le similitudini fra i due film si fermano alla sinossi. Amici per la pelle è un film profondamente fordiano, non solo per le inquadrature collinari en plein air o per l’orchestrazione delle scene d’azione, ma per l’utilizzo di un umorismo abbastanza caustico con cui il regista mette in scena il rapporto fra i due protagonisti, soprattutto per un film di grande distribuzione nel 1920.
Bim (Buck Jones) è un uomo adulto che nella vita non ha combinato nulla. Passa le sue giornate gironzolando per la cittadina di Norwalk, fra lo scandalo e il disprezzo di chi rispetta la morale.
Innamorato dell’insegnante Mary (Helen Ferguson), un giorno incontra Bill (Georgie Stone), un piccolo senzatetto che viaggia clandestinamente per il Paese a bordo di treni merci. Fra i due nasce quel tipo di rapporto che c’è fra dimenticati, fra chi non ha niente e nessuno. Oltre alla crescente scontrosità dei cittadini, la sparizione di un’ingente somma di denaro dalle casse della scuola aggrava ulteriormente la posizione di Bim, il quale è costretto ad un epico gesto di eroismo per provare la sua innocenza.
John Ford (che qui ancora si firma come Jack) prende una well-made play tutta intrighi, svolte inaspettate e buoni sentimenti per farla sua, dimostrando già di possedere una visione ed una padronanza del rapporto con lo spazio, che diventerà una delle sue cifre più riconoscibili. L’intensa formazione negli anni Universal dà qui i suoi frutti, la gestione del ritmo è impeccabile, mai un accento di troppo, e le parti più didascaliche della storia vengono compresse, evitando la prolissità delle immagini. Quando poi il regista capisce che è il momento di alzare il piede dall’acceleratore, lo fa in diversi momenti, ma sempre allo stesso modo. Uno o due personaggi fronteggiano l’orizzonte con il sole che penetra nell’obbiettivo della camera e fa respirare lo spettatore.
Il lavoro sulle dinamiche fra i due protagonisti è altrettanto meritevole di menzione. Il rapporto fra Bill e Bin (che tradotto in italiano vuol dire “cestino”, nomen omen) sembra farci dimenticare la loro palese differenza anagrafica. Fra i due non si istaura un rapporto fratello maggiore-fratello minore, né, tantomeno, padre-figlio; sono due pari, due anime in fuga e perse che non hanno null’altro che se stessi; ed in queste condizioni si sviluppa la loro amicizia, entrambi riconoscono nell’altro un qualcuno da proteggere, ma hanno anche la sensazione che quando uno di loro sarà in pericolo, l’altro ci sarà. Sono semplicemente due amici, Just Pals, appunto.
Ed è proprio nelle scene in cui questo rapporto viene fuori che Ford dà il meglio di sé, come quando Bill si ritrova, suo malgrado, a scuola, e Bin passa a guardarlo dalla finestra: negli occhi di Buck Jones non c’è il minimo di compassione melodrammatica per il piccolo, il suo sguardo è quasi gongolante, divertito dal fatto che il suo amico si ritrovi in una situazione per lui così noiosa; sono questi brevi momenti in cui si comprende pienamente il senso di quel legame, che è per entrambi profondo ma mai idolatrato.
Il contorno che il regista costruisce alle avventure dei due (più Mary), appartiene sicuramente al Ford più cinico. Ad eccezione dei tre già citati, tutti gli altri personaggi covano una meschinità mal celata di cui farsi beffa; passando dalle signore bene della cittadina, che si voltano dall’altra parte ogni volta che passa Bin, allo sleuthhound (il vice-sceriffo), che è ridotto ad una macchietta completamente priva d’autorità che ripete sempre e solo la stessa frase (“The law‘ll take care of this”), senza dimenticare lo spasimante di Mary, Harvey Cahill (William Buckley), che la mette nei guai davanti a tutta la comunità per i suoi loschi scopi. La satira ad una certa società perbenista e puritana è sempre stata una delle chiavi per spalancare il cinema di John Ford; tuttavia, non è comune trovarne un esempio così sicuro in un film che ha alle spalle più di cento anni.
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