STRANGE DARLING
E il suo fascino labirintico
Di Miriam Padovan
Strange Darling (2023), scritto e diretto dall’esordiente JT Mollner, è uno di quei film che si insinuano nella mente, giocando con le aspettative e ribaltando ogni presunta certezza narrativa. Presentato come un thriller dall’anima horror e contaminato da venature true crime, il film fa molto più che raccontare una storia: decostruisce i generi, li assembla a suo piacimento e ci invita a partecipare a un gioco crudele e raffinato.

Articolato in sei capitoli non disposti in ordine cronologico, Strange Darling sfrutta la discontinuità narrativa come strumento di inganno e sorpresa. Il montaggio è un protagonista silenzioso e subdolo, che guida lo spettatore attraverso una struttura che sembra sfuggire a qualsiasi linearità. L’ordine scelto (3-5-1-4-2-6) non è casuale, bensì una costruzione mirata che amplifica la tensione e costringe lo spettatore a ricomporre i pezzi del puzzle. La strategia può apparire come una furbata metacinematografica, ma si rivela invece una scelta che dona al film un’identità ben definita.

Al centro della vicenda troviamo due personaggi tanto magnetici quanto inquietanti: la Lady (Willa Fitzgerald) e il Demone (Kyle Gallner). Da una stanza di motel a una caccia mortale nei boschi dell’Oregon, il loro gioco del gatto e del topo assume contorni sempre più ambigui e disturbanti. Presto, il ribaltamento di ruoli sovverte la narrazione e ci pone una domanda scomoda: siamo sicuri che la vittima e il carnefice siano davvero quelli che pensiamo?
Il film, oltre ad attingere a piene mani dal thriller e dall’horror, gioca con le atmosfere del neo-noir e con una certa estetica da cinema grindhouse anni Settanta. La fotografia, curata da Giovanni Ribisi, contribuisce a creare un’atmosfera visivamente potente, con colori saturi che ricordano il cinema di Mario Bava. L’uso del 35mm aggiunge una texture vintage e tangibile, aumentando la sensazione di sporco e reale che permea ogni fotogramma. Ma Strange Darling non è solo una festa per gli occhi: la colonna sonora, con una versione ipnotica di Love Hurts dei Nazareth e i brani indie-pop originali di Z Berg, aggiunge un ulteriore livello di ironia e dissonanza. Mentre la violenza si fa sempre più esplicita e i giochi di potere tra i due protagonisti assumono sfumature sempre più torbide, la musica sembra quasi accarezzare lo spettatore, creando un contrasto straniante.

Non si può ignorare l’influenza che il cinema di Quentin Tarantino ha avuto su Strange Darling. Il montaggio non lineare, le inquadrature iper-stilizzate e il dialogo che si prende tutto il tempo necessario per costruire tensione e caratterizzazione ricordano le dinamiche di Pulp Fiction (1994) e Kill Bill (2003-2004).
Anche la commistione di generi, l’alternanza tra violenza brutale e momenti di bizzarra leggerezza, così come l’uso sapiente di una colonna sonora anacronistica, sono tratti distintivi che Mollner riprende e rielabora in chiave personale. Come Tarantino, anche Mollner sembra voler sfidare lo spettatore, proponendo un’esperienza visiva e narrativa che sovverte ogni aspettativa, portandoci in un viaggio tanto affascinante quanto spietato.
JT Mollner dimostra di conoscere bene il pubblico moderno, abituato ai colpi di scena della serialità televisiva e ai giochi metanarrativi. Strange Darling si fa beffa dei cliché, li sfrutta per poi smontarli con una ferocia intelligente. Se inizialmente sembra di assistere all’ennesima variazione sul tema del serial killer e della final girl, ben presto il film cambia le carte in tavola, sfidando le aspettative e costringendo lo spettatore a riconsiderare i propri pregiudizi. La violenza, qui, non è mai fine a se stessa: è un veicolo per esplorare la moralità ambigua dei personaggi e le dinamiche di potere tra uomo e donna, cacciatore e preda.
Non c’è spazio per il compromesso in Strange Darling: o lo si ama o lo si odia. Da un lato il film potrebbe risultare spiazzante per chi cerca una narrazione tradizionale, dall’altro il suo coraggio nell’osare e la sua capacità di stregare lo spettatore lo rendono un piccolo capolavoro del cinema indipendente. Mollner gioca con il linguaggio cinematografico come un illusionista gioca con le carte: ci convince di una verità solo per rivelarci, un attimo dopo, che ci siamo sbagliati. Un’esperienza viscerale, a tratti insostenibile, ma assolutamente da vedere.

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