AMORE E GUERRA
Di Gianluca Meotti
Al sesto film (in nove anni), Woody Allen inizia a scolpire la sua poetica, bagnandosi i piedi in territori fino ad ora sconosciuti al suo cinema. Lo fa citando (e parodizzando) gli “altri” suoi maestri, non più i comici, come i fratelli Marx, Bob Hope, W.C. Fields o Charlie Chaplin, ma gli autori europei che hanno più di tutti plasmato il suo immaginario. I riferimenti più che espliciti rimandano al Bergman de Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) o ai film sovietici d’avanguardia, fino ai grandi romanzi russi (in particolare un dialogo sul finale cita testi di Dostoevskij e Tolstoj); più di profilo sono presenti le influenze del Buñuel da commedia nera.

Il film è una trasposizione molto libera in chiave parodistica di Guerra e pace (Lev Tolstoj, 1869), spunto da cui Allen parte per trattare tutti quei temi che lo contraddistinguono; il rapporto con la morte, il dialogo unilaterale con un Dio indifferente e la coniugazione di amore carnale e spirituale, qui trattati, fanno già intravedere quello che saranno le opere alleniane più mature.
Durante le campagne napoleoniche in Russia, il pavido Boris Grushenko (Woody Allen) viene arruolato nell’esercito dello zar. Nonostante partecipi mal volentieri al conflitto riesce, fortuitamente, a compiere azioni di grande coraggio, che gli valgono vari titoli militari. Tornato a casa, sposerà la cugina Sonja (Diane Keaton), la quale convince Boris ad escogitare un piano per uccidere Napoleone. Tutto si risolverà in un nulla di fatto e Boris verrà “giustiziato per un crimine che non ho commesso”.
Parlare dei film di Woody Allen consultando la sinossi è sicuramente un approccio dubbio all’opera del regista newyorchese. È negli intrecci di trama, nella scrittura dei dialoghi, nelle interpretazioni dei suoi attori e nei pezzi delle Big Band come colonne sonore che viene fuori la poetica alleniana più pura, o sicuramente quella più conosciuta. Ed è proprio in Amore e guerra (Love and Death, 1975) che queste caratteristiche acquisiscono la loro forma più compiuta, mostrando un autore, che dopo quasi una decade di esperienze, ha compreso le possibilità del mezzo sia in chiave di regista che di sceneggiatore.

La differenza fondamentale rispetto al passato consiste nel minor affidamento che Allen fa dello slapstick, che fino a lì era stata la sua cifra predominante. Le scene di comicità fisica sono ad un minimo storico nella sua produzione e non risultano essere nemmeno le più efficaci; dall’altra parte, il film è infarcito da battute continue, con punch-line che arrivano puntuali ogni due o tre linee di dialogo. I tempi comici sono forsennati, le risate sono esteriorizzate a rischio e pericolo dello spettatore che, così facendo, potrebbe perdere la freddura successiva. È sorprendente poi come, in una scrittura comica in stato di grazia come questa, Allen riesca a far scivolare dentro tematiche esistenziali che, date le premesse, rischiavano di diventare banali e didascaliche; ma si verifica proprio l’opposto: grazie a stratagemmi quali la rottura della quarta parete e il voice-over, la storia di Boris assume un’umanità alla quale è facile rapportarsi. Le domande che si pone il protagonista trovano l’empatia del pubblico, che si riconosce in lui in virtù di questa enorme sincerità che emana.

Un rifiuto quasi totale della narrazione rappresenta la scelta di concentrare la forza dell’opera su questi temi.
In poco meno dei canonici novanta minuti alleniani, la vita del protagonista cambia radicalmente più volte, con il regista che soprassiede su questi cambiamenti descrivendoceli con degli sbrigativi voice-over o con scene velocizzate che aumentano il tono farsesco del film. Questa non è una scelta di superficialità, ma di un autore maturo che riconosce cosa è in grado di fare e che punta quindi su queste cose. Già ne Il dormiglione (Sleeper, 1973), il suo film precedente, aveva provato a sfidare i suoi limiti, cercando di realizzare un’epopea che superasse le tre ore sul modello de Il padrino (The Godfather, Francis Ford Coppola, 1972). Quando il progetto non era andato in porto, Allen aveva mantenuto solo una metà dell’idea originale, la storia di un uomo che si risveglia in un futuro distopico. A solo un film di distanza, l’esperienza de Il dormiglione dà i suoi frutti e Allen capisce quali siano le priorità della storia che vuole raccontare: queste risultano essere non tanto la storia in sé (cioè, il materiale drammaturgico ereditato da Tolstoj), ma i drammi esistenziali che orizzontalmente colpiscono tutta l’umanità.
Le catene con i suoi film precedenti non si esauriscono con l’approccio al come raccontare la storia, ma anche al cosa viene raccontato. Uno dei temi ricorrenti nelle sue prime opere è la rappresentazione satirica del potere e dei suoi protagonisti: sia ne Il dormiglione (dove quello che resta degli Stati Uniti è governato da un leader feroce), sia in Amore e guerra, ma anche ne Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971), il motivo latente del rapporto individuo-potere è sempre trattato con un’ironica disillusione, antitetica allo spirito dei tempi ma estremamente lucida per quanto riguarda i decenni successivi. Questo non fa sicuramente di Allen un autore politico o impegnato (anche perché nelle sue pellicole successive temi del genere scarseggeranno), ma la capacità di guardare oltre le apparenze di una società complicata e complessa, e di restituire le stesse in chiave comica, lo ha sempre reso uno dei maggiori uomini di cinema di sempre.
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