IO SONO ANCORA QUI
Di Alessia Vannini
Il grande regista brasiliano Walter Salles torna a collaborare con la talentuosa Fernanda Torres dopo Terra straniera (Terra Estrangeira, Walter Salles e Daniela Thomas, 1995) e con Fernanda Montenegro dopo quel capolavoro che è Central do Brasil (1998), candidato ad una lunga lista di premi, fra cui due Oscar.
Rinomato per i suoi toccanti drammi, con Io sono ancora qui (Ainda Estou Aqui, 2024) Salles torna a trattare tematiche umane come amore e famiglia, ma stavolta la componente politica diventa più centrale ed i temi di libertà e giustizia spiccano fra tutti.
Io sono ancora qui è un film drammatico-politico, diretto da Walter Salles e tratto dalla sceneggiatura di Murilo Hauser e Heitor Lorega, basato sull’omonimo memoriale di Marcelo Rubens Paiva (figlio di Eunice) del 2015.

Il film ha avuto la sua prima mondiale il 1° settembre 2024 all’81a Mostra del cinema di Venezia, dove ha ricevuto una standing ovation di oltre dieci minuti, oltre a numerosi commenti positivi da parte della critica, con un elogio unanime per l’interpretazione di Torres. Numerosi sono anche i premi e le nomination che questo film ha ricevuto.
Ma ora veniamo a ciò di cui tratta effettivamente questo film di cui tanto si sta parlando. Nel 1970, l’ex membro del congresso Rubens Paiva (interpretato qui da Selton Mello) ritorna a Rio de Janeiro dopo sei anni di esilio personale, a seguito della revoca del suo mandato all’inizio del colpo di stato brasiliano del 1964.
Vivendo in una casa idilliaca vicino alla spiaggia di Leblon, con la moglie Eunice e i loro cinque figli, Paiva torna alla sua carriera civile, continuando a sostenere gli espatriati senza discutere le sue attività con la sua famiglia.

Io sono ancora qui è purtroppo basato su fatti reali: dopo il rapimento dell’ambasciatore svizzero da parte di movimenti rivoluzionari di estrema sinistra, il Paese si trova di fronte a una incombente instabilità politica.
Un raid militare ha luogo in casa Paiva, portando all’arresto del capofamiglia e alla sua scomparsa nel gennaio 1971. Data la mancanza di chiarezza su cosa sia successo esattamente a Rubens, la storia non è raccontata attraverso il suo punto di vista, ma il film pone come suo cardine la figura di Eunice.
Eunice si rende presto conto della realtà di ciò che è successo a Rubens e giura di diventare una combattente per la pace e la sicurezza di se stessa, della sua famiglia e del marito scomparso. La situazione si aggrava quando Eunice viene portata via per un interrogatorio. Con la figlia maggiore Vera che si trova a Londra, la successiva più grande, Eliana – di soli quindici anni – è costretta ad accompagnare sua madre. Entrambe sono “scortate” coi volti coperti da dei sacchi. Le scene degli interrogatori, ambientate in un edificio cupo con celle di confinamento, sono strazianti: Eunice è lasciata in isolamento per dodici giorni; le viene negato il contatto con l’avvocato di famiglia; è tenuta completamente all’oscuro su ciò che sta accadendo a sua figlia; non è in grado di sapere dove suo marito è detenuto; viene costretta più e più volte a identificare le persone nei file fotografici come possibili insorti.

Salles costruisce magistralmente un inevitabile senso di compassione, includendo filmati dei Paiva in Super 8, così da dare al pubblico quel senso di familiarità, facendoci sentire come se fossimo parte di quella famiglia, come se fossimo cresciuti con loro e sperimentassimo le stesse gioie e tristezze che loro hanno vissuto: non stiamo guardando più semplici attori su un set.
Fernanda Torres offre una performance così magistralmente interiorizzata e realistica che facciamo quasi difficoltà a staccare gli occhi dallo schermo. La sua interpretazione è talmente ricca di espressività che ogni sguardo mescola incredulità e meticoloso autocontrollo. Mantiene l’intera pellicola ancorata ad una realtà emotiva che è ancora più straziante di quella fittizia.
Non solo Torres ci regala una performance all’apice delle sue capacità, ma sua madre – Fernanda Montenegro, attrice protagonista in Central do Brasil – torna qui nei panni di Eunice in un’età più avanzata.
Anche se la sua performance è breve, ciò non la rende meno incredibile: come nella storia di Io sono ancora qui, la co-presenza di madre e figlia si percepisce come un passaggio del testimone da una generazione all’altra. È anche interessante sapere che Fernanda Torres è la prima brasiliana ad aver vinto il Golden Globe come migliore attrice in un film drammatico, mentre sua madre è stata la prima ad essere nominata nella stessa categoria.

Questo non è tuttavia solo un film su una donna forte – anche se certamente lo è. È anche un film che ci mostra cosa i regimi autoritari siano disposti a fare pur di tenere in riga le persone e conformarle al loro “standard ideale”. Salles infonde anche tanta cultura brasiliana in questo film, per onorare quello stesso Paese degradato dalla dittatura militare. In questo modo, non solo sottolinea la brutalità della dittatura che il Brasile stava attraversando, ma mette anche in evidenza che c’è ancora del buono in quel Paese, che ci sono ancora brave persone che non si arrendono e che lottano per il loro diritto alla libertà e per quello dei loro concittadini.
La narrazione di Io sono ancora qui si estende per decenni, mostrando l’effetto duraturo dei rapimenti ed il loro impatto su un Paese. Quando un reporter chiede a Eunice se non sia più opportuno prestare attenzione esclusivamente a questioni più urgenti, piuttosto che pensare ad “aggiustare il passato”, lei è fermamente in disaccordo. Le famiglie dovrebbero essere risarcite per i crimini commessi ma, cosa più importante, il Paese deve “chiarire e giudicare tutti i crimini commessi durante la dittatura”, insiste. “Se questo non accade, continueranno ad essere commessi crimini impunemente”.
Questo film ci mette in guardia, suggerendoci di diffidare di chiunque cerchi di cancellare o riscrivere il passato. Nel corso della storia, Salles mostra ripetutamente la famiglia nell’atto di scattare fotografie e registrare video su pellicola per conservare i loro ricordi. Il regista ha infatti detto che i film sono “strumenti contro l’oblio” e che “il cinema ricostruisce la memoria”. Con Io sono ancora qui, egli vuol essere sicuro che nessuno dimentichi. Il regista brasiliano conosceva i Paiva da bambino, quindi la sua testimonianza sulla loro situazione è comprensibilmente incline a una scia di sentimentalismo. Tuttavia, Io sono ancora qui rimane un triste quanto realistico dramma sui desaparecidos.

Le scene finali in cui Fernanda Montenegro entra in scena sono ricche di un sapore piuttosto agrodolce, con Eunice diventata non verbale e su una sedia a rotelle, in forte declino con l’Alzheimer. La commozione è quasi travolgente mentre la guardiamo chinarsi dolcemente, con gli occhi che si accendono e con un accenno di sorriso al vedere la fotografia di Rubens in un programma televisivo sugli eroi della resistenza.
In linea con la resilienza che l’ha sempre contraddistinta, (la vera) Eunice Pavia ha trasformato il suo dolore personale e la precarietà in una forma di combattimento. All’età di quarantotto anni, ha conseguito una laurea in legge, dedicandosi alla lotta contro le politiche di regime che opprimono le popolazioni indigene brasiliane. Nel 1987, due anni dopo la caduta della dittatura, ha proseguito questo lavoro co-fondando un istituto dedicato alla difesa dell’autonomia indigena, missione che ha portato avanti anche come consulente per l’assemblea costituente responsabile della Costituzione del Brasile del 1988.
Ha ottenuto che il marito e tutti coloro scomparsi durante il regime fossero legalmente riconosciuti come morti, oltre ad ottenere risorse dirette per risarcire le famiglie delle vittime e localizzare i loro resti. Anche con l’approvazione di quella legge, però, Eunice non avrebbe ricevuto un certificato di morte rilasciato dal governo per suo marito fino al 2014. Fu allora che un rapporto della Commissione Nazionale per la Verità concluse che Rubens Paiva era tra le 434 persone uccise o scomparse dal regime militare del Brasile. La commissione ha inoltre ascoltato prove audio che attestano che Rubens è stato torturato, ucciso e gettato in un fiume, ed ha identificato i presunti responsabili dell’omicidio.
Eunice Paiva è morta nel 2018 e, considerata da moltissimi come un’eroina popolare, la sua tomba è diventata un luogo di pellegrinaggio. Inoltre, il presidente Da Silva ha istituito il Premio Eunice Paiva per la Difesa della Democrazia – un premio che viene assegnato annualmente a persone che hanno dato un contributo notevole al consolidamento del regime democratico del Brasile.
In conclusione, il film ci mostra la grande sofferenza che la famiglia Paiva ha subito e dipinge un agghiacciante quanto realistico ritratto della dittatura militare brasiliana (Ditadura Militar no Brasil) che governò il Brasile dal 1964 al 1985. Il senso di ansia durante tutto il film cresce esponenzialmente, e veniamo lasciati sul filo del rasoio con la speranza che, prima o poi, Rubens faccia ritorno a casa. A differenza di un certo altro film uscito sempre lo scorso anno, Ainda Estou Aqui ci mostra la realtà e la crudeltà dei totalitarismi. Contrariamente a quanto fa un altro film sempre del 2024, il capolavoro di Walter Salles non si perita a celare la dura verità dei desaparecidos. Io sono ancora qui ci mostra anche come, attraverso la lotta, sia possibile abbattere le dittature. Purtroppo – a differenza dell’altro candidato agli Oscar che ha ottenuto molte più nominations – questa è una storia vera, raccontata senza filtri e fronzoli. In questo film non troverete stridenti numeri musicali, ma scoprirete sicuramente una storia che, se da una parte lacera il cuore, dall’altra ha anche tanto da insegnare. Sebbene la sofferenza sia predominante nel film, è la resilienza la vera eroina. Nonostante tutte le difficoltà che Eunice e la sua famiglia hanno dovuto affrontare, non si sono dati mai per vinti e la loro storia è uno straordinario esempio di “cadere ma sapersi rialzare ed andare avanti”. In tempi come quelli che stiamo vivendo, sono proprio storie come queste che meritano di essere raccontate. La storia della famiglia Paiva non vuol suscitare pena, ma vuol essere soprattutto un esempio di vita, di come incassare i colpi e contrattaccare, perché anche se abbiamo perso una battaglia, possiamo sempre vincere la guerra.

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