L’UOMO NEL BOSCO
Di Gianluca Meotti
Alla morte del panettiere del piccolo paese in cui è cresciuto, Jérémie (Félix Kysyl) lascia Tolosa per recarsi al capezzale del defunto.
Già dalla prima scena (il viaggio in macchina da Tolosa a Saint-Martial), il regista Alain Guiraudie lascia intuire la discesa nei grotteschi inferni occitani a cui Jérémie, suo malgrado, prenderà parte. La macchina da presa alterna campi lunghi e soggettive del fanale sinistro della macchina, con i titoli di testa che appaiono sullo schermo, mentre il protagonista percorre questa strada collinare piena di curve e priva di altre vetture. La scena è lunga e il rimando a Shining (The Shining, Stanley Kubrick, 1980) viene subito in mente, ma ciò che più colpisce è la totale assenza di vita oltre a Jérémie; un paesaggio rurale che sembra essere stato abbandonato a sé stesso, un posto fuori dal mondo in cui vengono covate quelle pulsioni, allo stesso tempo ridicole e truci, che il nostro tempo non ammette.

Arrivato in paese, il nostro rincontrerà tutti coloro che, fino ad allora, erano rimasti nel suo passato: la vedova Martine (Catherine Frot), il di lei figlio Vincent (Jean-Baptiste Durand), il vecchio parroco (Jacques Develay) e l’ex compagno di scuola Walter (David Ayala). Gli antefatti che Guiraudie decide di raccontare sono minimi, il passato è stato un luogo dal quale Jérémie è uscito e vuole mantenerne la distanza. Ma quando ritorna in contatto con la sua terra di origine, succede qualcosa e con ognuno intreccia rapporti differenti.
Dopo la funzione funebre, Martine invita Jérémie a trattenersi da lei per la notte, suscitando l’ira del figlio, che vede nel ragazzo un approfittatore con qualche doppio fine. La “notte” si trasformerà presto in giorni e poi settimane, permettendo a Jérémie di riappropriarsi della sua vita e delle sue abitudini, diventando anche oggetto del desiderio dei suoi compaesani.
Perché è proprio questo che L’uomo nel bosco (Miséricorde, 2024) è, un film sul desiderio e sulla forza magnetica di attrazione che esercita un corpo estraneo dentro un alveare che ha regole e schemi ben precisi.
Intrattenendo rapporti con tutti e quattro i personaggi principali, Jérémie svilupperà con ognuno di loro sottotrame inattese e pericolose. Soprattutto, il film si concentra nel rappresentare quella fra il giovane e Martine: quello che è successo in passato fra i due sembra ancora essere molto presente e l’attrazione che provano rispettivamente l’uno per l’altra ne risente.

Il paragone pasoliniano con Teorema (Pier Paolo Pasolini, 1968) viene facile, più defilati sono invece quelli con i film provinciali di Claude Chabrol o con Tom à la ferme (Xavier Dolan, 2013), ma le differenze di intenti e temi sono più che distanti. Guiraudie conferisce un carattere totalmente “a-erotico”, nonostante la tematica; analizza il desiderio che proviene da vari punti di vista, che sono irrimediabilmente legati alla placida (e noiosa) vita di campagna. Tutti hanno un motivo diverso per volere o detestare l’oggetto del loro interesse, e si protendono in sforzi solipsistici per ottenerlo, costi quel che costi.
I personaggi, che inizialmente sembrano annunciare una storia canonica a cui lo spettatore è abituato, si comportano come nessuna persona educata ad una vita in spazi più globalizzati. Le cose che dicono e i comportamenti che adottano nei confronti del protagonista risultano spiazzanti, ma di ordinaria amministrazione fra di loro. Questo risulta essere probabilmente il motivo per cui tutti vogliono, in qualche modo, Jérémie: l’anomalia che distrae tutti gli appartenenti ad un gruppo sociale dalle loro vite monotone causa curiosità e attrazione, che si manifestano nelle maniere più disparate. La continua e spasmodica ricerca di attenzioni presso il giovane porta anche a delle situazioni da teatro dell’assurdo, in cui Jérémie appare come vittima o carnefice, soprattutto per il parroco e Walter. L’introduzione nella narrazione di questo tipo di scene conferisce alla pellicola un’aria di leggerezza sconosciuta nei film citati sopra, ma che offre di tanto in tanto una dose di ossigeno.
La misericordia (Miséricorde dal titolo in originale, che si può trovare al primo posto della lista dei migliori film del 2024 per i Cahiers du cinéma) è quella con cui Guiraudie guarda a tutti i personaggi del suo film, impossibili da estirpare dal contesto in cui si sono formati e per questo tesorieri di una purezza morale unica, ma anche quella divina che assolve tutte le debolezze umane (qui anche l’omicidio).
I luoghi in cui i personaggi agiscono sono un altro degli elementi fondamentali che Guiraudie utilizza per rendere il suo racconto più vicino ad una favola (nera). Su tutti il bosco, che rivela la sua natura quasi mistica ogni qualvolta che qualcuno vi entra per cercare dei funghi. Questa ricerca quasi ossessiva è solo un pretesto per il regista, che proprio fra gli alberi in via di sfogliatura mette in scena tutti gli snodi cruciali della pellicola.

Il bosco prende quindi la consistenza di un luogo ancora più intimo della ville di Saint-Martial, un posto dove nascondersi all’interno del nascondiglio stesso e dove i cittadini, sicuri di non essere osservati, danno sfogo alla loro vera natura.
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