SCIOPERO
Di Giovanni “Fusco” Pinotti

Nella Russia zarista prerivoluzionaria, un operaio, ingiustamente accusato di furto dal padrone, si impicca.
Infuriati, i suoi compagni scatenano una rivolta, scioperando e chiedendo condizioni di lavoro migliori, orari ridotti e salari dignitosi. Per tutta risposta, i capitalisti fanno intervenire le forze dell’ordine e l’esercito, annegando lo sciopero nel sangue e stroncando le speranze dei lavoratori.
La trama non è complessa, né deve esserlo per il tipo di pellicola. Primo film di una ideale serie composta da sette lungometraggi sul movimento operaio in Russia (chiamata “Verso la dittatura del proletariato”, in modo da evocare e rappresentare i momenti che precedono e conducono alla vittoria della rivoluzione e alla conquista del potere politico da parte delle masse lavoratrici), questo Sciopero (Стачка / Stačka, 1925), opera prima di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, è infatti un film che lavora esclusivamente sulle immagini e sulla loro combinazione ed opposizione reciproca.

Forte della sua esperienza nel teatro sperimentale del Proletkult e partendo da un’incisiva citazione di Lenin riguardo la necessità di organizzazione e unità della classe operaia, il padre del cinema (sovietico e non) mette in scena non tanto una storia vera e propria, quanto una serie di situazioni e quadri con un obiettivo ben preciso: quello di mostrare, attraverso la potenza del montaggio delle attrazioni, tutta la cruda realtà della repressione capitalista e dell’impossibilità per le masse sparse e disomogenee di liberarsi del giogo della borghesia.
Tutto il desiderio di sperimentazione da parte di Ėjzenštejn emerge sin dai primi istanti della pellicola, quando una parola dell’intertitolo si anima, capovolgendosi e trasformandosi in uno degli ingranaggi presenti nella fabbrica. Capiamo subito, dunque, di star assistendo non a un mero e semplice prodotto propagandistico, ma piuttosto al risultato di una profonda indagine, adoperata dal giovane cineasta, intorno alle potenzialità del linguaggio cinematografico, della combinazione intellettuale di immagini dai vari gradi di autonomia. Questo moto innovativo e creativo prosegue per tutto il resto del film, esplicandosi in vari espedienti, quali la sovrapposizione degli operai con i macchinari della fabbrica oppure l’accostamento,
più volte ripetuto, dei protagonisti della vicenda narrata con i propri “corrispondenti” nel regno animale: la terza parte, per esempio, si apre con immagini di gattini, maialini e anatroccoli, con uno stacco di montaggio che taglia poi sull’immagine di un piccolo bambino che sveglia il padre, ridendo; l’accostamento di immagini così tenere mette in moto nello spettatore un processo di associazione che riesce a trasmettere un’immagine di conquistata e meritata serenità, ottenuta dopo l’interruzione del lavoro in fabbrica grazie allo sciopero. Tutto questo complicato procedimento avviene interamente grazie al significato scaturito dalla sapiente combinazione di immagini (all’apparenza) slegate.
Importante dimostrazione, in questo senso, è riscontrabile nella brillante operazione di montaggio che collega l’intensificarsi delle operazioni di polizia contro gli operai in sciopero all’immagine di uno degli azionisti della fabbrica che strizza con sempre più forza un limone con uno spremiagrumi; di nuovo, il processo mentale attuato è tanto semplice quanto efficace: a un’azione così mondana e normale viene attribuito il parallelo metaforico con la stretta della presa da parte della classe capitalista, con l’inasprimento della violenza da parte delle forze dell’ordine (o forze del potere, con un nome più adatto). Altro esempio fondamentale dell’importanza dell’accostamento degli animali con le situazioni umane, indubbiamente il più famoso del film, è la scena finale: la brutale e spietata repressione dello sciopero da parte dell’esercito, che non risparmia nemmeno donne e bambini, viene intramezzata nel montaggio con le forti e crude immagini di un toro che viene sgozzato e macellato; con l’ennesima, geniale operazione di montaggio, dunque, Ėjzenštejn opera un macabro parallelo tra la bestia preda di una morte violenta per via della “naturale” superiorità dei suoi carnefici e tra gli operai, privi di guida e organizzazione e quindi inferiori ai loro carnefici (i loro nemici di classe), mandati al macello, ora indelebili “cicatrici sul corpo del proletariato”, come recita il cartello finale successivo alla panoramica sul massacro e a un primissimo piano di uno sguardo che sfonda la quarta parete, come a voler incitare ancora di più lo spettatore all’azione.
Oltre alla storica, fondamentale e impeccabile operazione di montaggio, Ėjzenštejn dimostra di essere uno straordinario direttore di masse: le scene dello sciopero e della repressione coinvolgono centinaia di comparse e sono impressionanti ancora oggi per la loro incisività ed efficacia. Il Maestro sovietico avrebbe poi dimostrato anche con i film successivi, soprattutto con La corazzata Potëmkin (Бронено́сец «Потёмкин» / Bronenosec Potëmkin, 1925), Ottobre – I dieci giorni che sconvolsero il mondo (Октябрь / Oktjabr’, 1928) e Aleksandr Nevskij (Александр Невский, 1938), quanto questa sua abilità potesse essere sfruttata per fini artistici sempre più elevati.
L’eredità di Sciopero, in conclusione, non è affatto quella di un semplice e comune film propagandistico: certo, l’obiettivo ideologico della pellicola è trasparente e si manifesta anche, per esempio, nella rappresentazione grottesca e caricaturale della classe capitalista (anche se, dopotutto, non sono ritratti così distanti dalla realtà; se non mi credete, confrontate le risposte dei proprietari della fabbrica alle richieste degli operai del film con quelle dei padroni di oggi alle stesse istanze rivolte loro dai lavoratori), ma la potenza autentica dell’opera, che la rende un tassello fondamentale per la comprensione del cinema, risiede piuttosto nella sperimentazione, nell’indagine e nell’avanzamento delle potenzialità del mezzo adoperata da Ėjzenštejn. La sua importanza non può essere sottovalutata, come dimostra la sua influenza su innumerevoli cineasti successivi, tra cui (forse l’esempio più lampante) lo stesso Francis Ford Coppola, il quale cita direttamente, nel suo Apocalypse Now (1979), la scena finale di Sciopero.
Oltre alla sua fondamentale rilevanza nell’ambito della settima arte, il capolavoro di Ėjzenštejn è un documento fondamentale a testimonianza della spietata difficoltà della guerra di classe e della vitale necessità di unità d’azione da parte della classe operaia ai fini della propria liberazione e della realizzazione dei più alti ideali dell’umanità. Qualcosa che soprattutto oggi, a cent’anni di distanza e con una necessità sempre più grande di smantellare l’oppressivo sistema responsabile dell’avvelenamento del pianeta, non possiamo dimenticare.

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