CIAO BAMBINO
Di Gianluca Meotti
Presentato nella sezione “Freestyle” dell’ultima Festa del Cinema di Roma e vincitore nella categoria Migliore Opera Prima, Ciao bambino (Edgardo Pistone, 2025) è un esordio che unisce immaginari e riferimenti cinematografici antipodali tenuti saldamente in mano dal suo regista, il quale, con molta sicurezza, sa sempre dove vuole andare e il modo più efficace per arrivarci.
Strutturato come l’incontro improbabile tra il racconto sociorealista dei rioni napoletani (con corollario di piccola criminalità annesso) e il melodramma borghese del primo Godard (in particolare per come i protagonisti interagiscono fra di loro e con gli spazi che abitano), il film è un tuffo in acque quasi inesplorate per il cinema nostrano. La delicata attenzione di Edgardo Pistone per vite che delicate non possono essere porta a galla un’umanità che non va mai a sfociare in un romanticismo stucchevole, rischio che accomuna molti esordienti (e non solo) incerti sul come realizzare la propria visione.
Alla soglia dei suoi diciotto anni, Attilio passa le sue giornate fra la vita nel rione e il mare, bighellonando con il suo gruppo di amici, tutti incerti di cosa fare della propria vita ma estremamente legati. Per Attilio le cose iniziano a cambiare, prima quando suo padre – che non vede da anni – esce di prigione, e soprattutto quando viene incaricato di proteggere Anastasia, una giovane ragazza dell’Est che fa la prostituta. Quello che inizialmente è un rapporto quasi di sopportazione si trasforma in un sentimento reale, che viene però minacciato dalle colpe del padre, che ricadono direttamente sul figlio. Nella lotta fra amore e famiglia, Attilio dovrà trovare una soluzione per se stesso e per tutti gli altri.
Nel rapporto fra generazioni, spesso conflittuale, si trova il cuore della pellicola. Che siano padri e figli o piccoli boss locali e sottoposti, è chiaro che il film giri attorno a degli scontri: con gli adulti, con se stessi ma anche con il proprio destino.
La strada che si prospetta al gruppo di giovani è facilmente immaginabile, in particolare per Attilio. La scarcerazione di suo padre porta a galla vecchi conti non saldati che ora gravano sulle spalle del ragazzo.
L’uomo – interpretato da Luciano Pistone, vero padre del regista e qui esordiente assoluto – sembra disinteressarsi completamente delle sue colpe, lasciando tutti gli oneri al figlio, il quale si ritrova a dover diventare adulto nel giro di pochi giorni. Tutto ciò porta a immaginarsi un film visto e rivisto, ma che Pistone rimaneggia, portando la narrazione su terreni più delicati ed esplorando da vicino le fragilità di due personaggi (Attilio ed Anastasia) opposti ma complementari.
Ma il vero pregio del film è rilevabile altrove. L’uso del visuale è fondamentale per la composizione delle suggestioni emotive a cui il regista punta. È sufficiente guardare il trattamento iconografico che Pistone fa dei suoi personaggi: gli adulti portano in volto il racconto di una vita intera, dura e avvilente; hanno capelli arruffati o barbe incolte e, come topi, cercano di arraffare tutto ciò che possono il prima possibile, incerti se saranno ancora lì il giorno seguente. Dall’altro lato troviamo i ragazzi, i veri protagonisti del film, che a più riprese vengono inquadrati a torso nudo o direttamente nudi; sono corpi giovani, vigorosi ma ancora delicati, che si muovono, giocano e fanno l’amore in un intreccio di vita che li eleva dalla vita rionale.
L’uso dei corpi è particolarmente significativo, in quanto Pistone li utilizza a suo piacimento per trasmettere allo spettatore qualcosa che sarebbe risultato pedante se spiegato a parole. L’espediente è lo stesso, indipendentemente che si tratti di una scena di tuffi da una scogliera o di una di sesso, ovvero saturare ampiamente il bianco e nero così da dare un senso di candore maggiore alle carni. Riuscendo a creare immagini ad alto impatti visivo, e soprattutto ad esprimersi attraverso esse, Pistone dimostra una conoscenza del mezzo profonda e non scontata per un regista classe 1990.
Questa conoscenza è tanto più strabiliante considerando l’insieme di generi differenti e riferimenti cinematografici, passati e recenti, che non solo coesistono, ma si rafforzano a vicenda. Le derive dark del dramma di rione (sostantivo che in questo film va inteso in senso semiotico) scivolano nel melodramma di formazione, che prende corpo grazie alle interpretazioni dei due giovani attori – entrambi esordienti – Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk, rispettivamente Attilio e Anastasia, i quali esprimono una confidenza reciproca che conferisce un altro strato di profondità nelle dinamiche emotive del film.
Un altro elemento fondamentale per enfatizzare il trasporto emotivo è la colonna sonora, composta da K-Conjog (ennesimo esordiente), che unisce archi da camera a rimandi romantici, canzoni popolari e potenti ballate rock che stilizzano ulteriormente le unicità dei vari generi messi in scena.
Nel complesso, un esordio che fa ben sperare, rischioso e appassionato, che dimostra uno sguardo nuovo e non conforme a tante altre prime volte del cinema nostrano.



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