TECNICA
CLIMAX E CARNAGE
Le due facce del “Massacro da camera”
Di Sibilla Bissoni
Climax (2018), scritto e diretto da Gaspar Noé, e Carnage (2011), diretto e co-scritto da Roman Polański, sono due film paragonabili tra loro, e questo è un fatto certo.
I suddetti lungometraggi presentano due affinità chiare: la completa mancanza di varietà di scenografie e l’utilizzo primario ed efficace della cinepresa come occhio soggettivo visibile sulle vicende.
Il dramma disperato, che strepita fino quasi a bucare lo schermo e a prendere per la gola lo spettatore, in entrambi i casi è un dramma da camera, un dramma che si attua rimanendo sempre (o quasi) con quattro mura attorno a sé e con un tetto sulla testa.

Climax è un lungometraggio della durata di novantasette minuti, colmo di dinamismo e velocità (tecnicamente e narrativamente parlando), una prova di concezione cinematografica estrema per il regista argentino (già avvezzo a rappresentazioni folli sullo schermo), che decide di utilizzare poco più di due soli piani sequenza per strutturare l’intero film.
Climax è un racconto ascendente di un disastro orribile.
Alla fine degli anni Novanta, un gruppo di ballerini si riunisce in un club isolato tra monti e neve per provare le coreografie di uno show. Finite le prove, però, tutti si rinfrescano bevendo un po’ di sangria, che nessuno è consapevole essere pesantemente drogata di LSD. Ne seguiranno una serie di raccapriccianti vicende.
Aggiungo che, come di consueto per le storie più macabre e incredibili, gli eventi narrati sono tratti da una storia vera.
Il film non possiede una vera e propria sceneggiatura; Noé ha scelto di scrivere solo uno scarno scheletro che reggesse la trama da lui voluta, lasciando libero sfogo agli interpreti di improvvisare completamente il resto.
Questi interpreti, essenziale dirlo, non sono (salvo Sofia Boutella) attori professionisti, ma bensì ballerini professionisti, elemento importante per interpretare proprio i ballerini protagonisti dei fatti della storia (questo ci rimanda ad un approccio tipicamente Neorealista).

Possiamo dividere Climax in tre atti: le iniziali video-presentazioni dei ballerini che parteciperanno al fantomatico spettacolo, le cui prove generali sono contenute nel film (riprese da Noé su di una nostalgica TV a tubo catodico, in un disturbante inizio di inquadrature fisse); una seconda parte composta dal primo piano sequenza di circa dieci minuti (l’unico che racchiude una coreografia non improvvisata direttamente sul set), con annessa conseguentemente una serie di conversazioni riprese sempre a camera fissa che mostrano i vari personaggi parlare tra loro; ed infine l’ultimo, lunghissimo atto, cioè un piano sequenza folle (in parte montato) che si elegge documento delle più empie, malvagie ed insensate azioni che un bad trip può regalare.
La macchina da presa nelle mani di Gaspar Noé diventa qui (nell’ultimo atto) uno strumento bivalente: arma brutale e occhio ricolmo di lacrime. L’arma brutale diviene all’occorrenza sguardo voyeuristico su corpi violentati, l’occhio invece si fa più di una volta inquadratura soggettiva, cercando di avvicinarsi con empatia alle azioni e sorti oscene dei personaggi.

Il regista poi inserisce delle grafiche impattanti, con varie scritte, nel corso della psicotica narrazione, apparentemente (e magari volutamente) senza un senso logico subito comprensibile a tutti, ma che trasmettono ulteriore caos nella prorompente claustrofobia del film.
Climax non è però completamente girato negli interni del macabro club, ma ha anche una importante, sebbene molto piccola, parte esterna. Questa è ambientata nell’altissima coltre di neve, cornice del nulla che regna al di fuori della location principale. Potremmo vederci la morte bianca, quella più crudele nella cultura di massa: la liberazione nelle braccia della triste mietitrice per non aver commesso alcunché, il più classico e mistico martirio dell’innocente.
Abbiamo parlato dell’imponente lavoro di Noé. Ora, confrontarlo con Carnage di certo non ha lo scopo di eleggere il migliore tra i due, quanto piuttosto di contrapporre due capolavori nel genere del dramma da camera.
Polański adatta la pièce teatrale di Yasmina Reza (co-sceneggiatrice della pellicola) in un film di ottanta minuti che narra di una carneficina domestica e borghese, vincitore del leoncino d’oro al festival di Venezia nel 2011.
A seguito di una rissa tra ragazzini al parco, i loro genitori decidono di incontrarsi nell’accogliente appartamento della coppia del ragazzino vittima del pestaggio per risolvere la situazione in maniera civile.
Eppure, con una certa prevedibilità, l’eloquio falsamente educato degenererà in fretta, innescando una bomba nascosta dietro l’altra, tutto ciò in un insospettabile salottino borghese.

Dalla questione principale di quale dei due ragazzini avesse effettivamente ragione, si passerà a discutere delle varie professioni e vite private dei presenti nella stanza, per poi passare ai più disparati argomenti, accomunati dalla grande tematica che il grande cineasta ha sempre amato: la feroce critica alla classe borghese e alla sua ipocrisia.
Polański mette in scena, attraverso un montaggio serrato di primi piani su uno e poi sull’altro personaggio, una vera e propria tragedia “comica”, condita di umorismo nero e seri dilemmi familiari e amorosi.
I movimenti di macchina si dimostrano, sebbene costretti dentro alle stesse quattro mura per la quasi totalità del lungometraggio, ariosi, spaziando in modo largo tra i quattro protagonisti ed affidandosi completamente (e giustamente) alle magistrali interpretazioni di Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly.

La coppia dei genitori del ragazzino-carnefice proverà a “fuggire” diverse volte dal claustrofobico appartamento, e mentre lo fanno la macchina da presa li rincorre strenuamente e, con varie manipolazioni attuate dalla coppia di genitori del ragazzino-vittima, li riaccompagna in soggiorno, per far sì che il massacro reciproco continui. Fatto questo, il loop della storia si ripete sempre e la cinepresa può proseguire con i suoi balzi perfetti tra un personaggio e l’altro, guidata dalle parole atroci camuffate da una (assolutamente non credibile) educazione. Il film del regista polacco non è, come già detto anche in Climax, completamente ambientato all’interno dell’iconico appartamento, ma ha ben due momenti di aria fresca: all’inizio e alla fine.
Il più interessante è il finale: anche qui l’aria esterna dona libertà agli innocenti, non in un crudele ammasso di neve simboleggiante il niente cosmico, piuttosto nel parchetto newyorkese che fu luogo della maledetta, iniziale rissa.

Climax e Carnage raccontano entrambi di massacri. Il primo truce, insensato, macabro e psicotico, il secondo ipocrita, isterico, concettuale e completamente sull’orlo di una crisi di nervi.
Noé e Polański riescono, a distanza di pochi anni, a raccontare due drammatiche vicende, sempre rimanendo fedeli alle rispettive visioni poetiche, stando attenti a non cedere al manierismo della tecnica cinematografica, pur sempre ballando sulla sottile linea del virtuosismo esagerato.
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