LOVE STREAMS – SCIA D’AMORE
L’ultima irrazionalità nel cinema di Cassavetes
Di Edoardo Sampaoli
Love Streams – Scia d’amore (Love Streams, 1984) è un brutto film: montaggio discontinuo, personaggi inconcludenti, a volte fermi e altre in continuo movimento, una regia sbilanciata; forse, però, se prendiamo questi parametri per misurare un’opera di John Cassavetes, stiamo sbagliando tutto. Pulsione, esasperazione, silenzio assordante, illogicità: uno squarcio nella vita. Questa è l’anima della riflessione ultima dell’artista, grezza, imperfetta e sporca, come la vita.
Love Streams, “ultima” opera del grande cinema di Cassavetes (sulla carta figura come vero ultimo Il grande imbroglio del 1986, in originale Big Trouble, che è disconosciuto anche dall’autore), dalla materialità si trasforma in altro e diventa immateriale, sfuggente e al contempo insistente, incoerente e coerente, illogico e logico, come, di nuovo, la vita. Cassavetes insegue una catarsi, disseminata nelle sue opere-parti che nascono come Minerva, impossibile da raggiungere per l’eternità, ma forse solamente per qualche ora.
È l’ultima imprevedibilità del regista che con L’assassino di un allibratore cinese (The Killing of a Chinese Bookie, 1976) ci aveva fatto aspettare un noir che veniva poi rovesciato, come erano ribaltati il thriller e gangster-movie Gloria – Una notte d’estate (Gloria, 1980) e la commedia americana Minnie e Moskowitz (Minnie and Moskowitz, 1971); Love Streams si mostra come una commedia nera di cui pensiamo di prevedere lo sviluppo di trama, che finirà però sempre per contraddirci.
Robert Harmon (John Cassavetes) è uno scrittore erotico che vive in maniera sgretolata in continua ricerca di creatività: ospita in casa prostitute, gira per locali notturni, finisce continuamente ubriaco in casa di donne.
Sarah Lawson (Gena Rowlands), uscita dal divorzio con il marito, dove perde anche l’affidamento della figlia, su consiglio del suo psichiatra fa un viaggio in Europa; un viaggio che finirà presto, in realtà, a Los Angeles, a casa del fratello Robert.
Da Volti (Faces, 1968) a Mariti (Husbands, 1970), e poi da Una moglie (A Woman Under the Influence, 1974) a La sera della prima (Opening Night, 1977), l’universo di Cassavetes si ripiega su stesso nella follia ordinaria dell’esistenza e nelle nevrosi che si celano dietro ogni persona, che qui esplodono e cadono ai piedi d’una vita meschina e malvagia.
La sera della prima ci aveva già avvicinato a quella sottile linea tra attore e personaggio, in una storia di follia e nevrosi, e qui ancora una volta il binario Robert-John alla fine è lo stesso, proprio come Sarah-Gena.
Nel film, Robert dissemina spesso frammenti (come la frase “Io non amo molto gli uomini, sai. Sono uno scrittore, non faccio soldi con gli uomini. Nessuno è davvero interessante, sono piuttosto noiosi.”) che si sovrappongono alla filmografia di Cassavetes, dove principalmente ha seguito e incastrato nell’inquadratura la sua musa e moglie Gena Rowlands, elevandola all’immortalità cinematografica.
Si passa anche per l’incapacità di amare di Robert, dove Cassavetes si mette a nudo davanti alla camera in un film che sembra non avere nulla di rassicurante da dirci.
Sarah-Gena ha troppo amore da vendere, e questo la porta ad avere dei crolli emotivi continui. Amore-Follia sono presenti contemporaneamente in lei, come si vede nella sequenza più iconica del film, quando compra animali (oche, anatre, pulcini, pony, una capra e un pappagallo) per il fratello Robert allo scopo di riattivare l’amore in lui. Sarah vive a cavallo dei due mondi dell’universo di Cassavetes, dove follia e realtà si mescolano. Esempio di ciò sono due sequenze oniriche, sogni che sono l’unica evasione per Sarah in un mondo dove il suo amore si può sprigionare, dove si riappacifica con il marito e la figlia. Sarah, convinta che sia così, vuole tornare da loro quando in realtà il matrimonio è fallito, la figlia la odia e nulla è cambiato da quando lei è andata via e arrivata dal fratello.
Insieme, Cassavetes indaga il loro rapporto coniugale, qui rappresentato come rapporto fraterno metafora dell’amore superiore e del legame indissolubile tra i due, che ha il suo apice in un abbraccio tra i due (Fig. 1) dopo una ricaduta di Sarah-Gena, simbolo dell’amore tormentato ma eterno.
Love Streams è un film che sa di addio: lo avvertiamo nel trattamento dei personaggi, nella stanchezza e franchezza; a Cassavetes, durante la lavorazione del film, fu diagnosticata la cirrosi epatica e questo sicuramente modificò il percorso creativo durante il film, nella lavorazione sul corpo attoriale e nella scelta registica.
C’è un filo rosso che percorre tutto il film e che accomuna tutti i personaggi, anche secondari, dell’opera: la solitudine. Per tutto il film, Cassavetes opta per campi controcampi, ostacoli visivi (Fig.2), non ci lascia quasi mai vedere due personaggi insieme sulla scena nel verbale, ma solo nel fisico. L’unione è l’unico modo per sconfiggere, anche se per poco, la solitudine, sancendo quel contatto che rimane fugace-eterno, ambivalente tanto quanto la vita.

E di “contorno” ci ritroviamo sempre nei primi piani, che inchiodano (Fig. 3) lo spettatore nell’abisso dell’essere umano, di cui gli occhi di Rowlands e Cassavetes ci ricordano la stanchezza di due grandissimi autori che hanno lavorato per tutta la loro carriera artistica in bilico nella follia ed esplorando ciò che più ci fa paura.
Forse Love Streams è il film più cupo di Cassavetes. Non eccede come hanno fatto Una moglie e La sera della prima, ma si avverte costantemente una sconfitta a priori che ingabbia i personaggi; la catarsi qui è solo di condivisione del dolore, i personaggi non hanno evasione e lo dimostrano le ringhiere frapposte fra lo spettatore e Sarah quando questa cerca di evadere andando in Europa, ricordandoci che ovunque andremo la prigione ci seguirà (Fig. 4).
Nel 1989, cinque anni dopo, Cassavetes ci lascerà, e come è arrivato ci insegna che gli orrori sono intrinsechi in noi; solo nella condivisione di questo dolore possiamo arrivare a una catarsi, come una grande tragedia greca.
“I film oggi mostrano soltanto un mondo di sogni e hanno perso contatto con la vita reale. In questo Paese la gente è già morta emozionalmente a ventun anni, forse ancor prima. Come artista, la mia responsabilità consiste nell’ aiutare la gente a superare i ventun anni. I miei film sono un percorso nelle emozioni e nella vita intellettiva, che offrono un possibile modo di evitare il dolore. Il film è un’investigazione sulla vita, un’esplorazione, un continuo interrogarsi sulla gente”.
– John Cassavetes
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