APPROFONDIMENTI
IL WESTERN REVISIONISTA, PARTE II – PREPARARE IL TERRENO
L’amante indiana e Mezzogiorno di fuoco
Di Giovanni “Fusco” Pinotti
Nel canone del western classico, spesso spiccavano due fondamentali punti fissi, sia politico-ideologici sia propri del genere in quanto espressione cinematografica: da un lato la rappresentazione monodimensionale e macchiettistica dei nativi americani, dall’altro la fiducia indiscriminata nella bontà dei valori della comunità costruitasi nell’espansione a Ovest. I due film che analizzeremo in questa sede, usciti nelle sale statunitensi agli inizi degli anni Cinquanta, si pongono in netta contrapposizione con le colonne portanti summenzionate, preparando quindi il terreno per un’ulteriore revisione del genere, dispiegatasi appieno, come menzionato nella prima parte di questo approfondimento, nell’ambito della rivoluzione neohollywoodiana. Le due opere che prenderemo in esame, infatti, pur avendo l’aspetto e l’apparenza della classicità – specie per quanto riguarda attori, scenografie, fotografia, linguaggio, ambientazione e azione – mettono inequivocabilmente in discussione un sistema di valori considerato ormai appurato e ripensano il ruolo della nazione statunitense nella lunga, complessa e sanguinosa storia della frontiera. Gli oggetti dell’articolo, probabilmente già intuiti dagli appassionati del genere, sono dunque L’amante indiana (Broken Arrow, Delmer Daves, 1950) e Mezzogiorno di fuoco (High Noon, Fred Zinnemann, 1952).
L’amante indiana (Broken Arrow), Delmer Daves, 1950
1870, Arizona. Il cercatore d’oro ed ex scout dell’esercito unionista Tom Jeffords (James Stewart) salva da morte certa un ragazzino Apache; solo grazie a questa gentilezza gli viene concesso, una volta sopraggiunti i membri della tribù del giovane, di uscire dal territorio Apache sano e salvo. Tornato a Tucson e disgustato dall’atteggiamento univocamente razzista, militarista e genocida dei suoi concittadini, Tom decide di imparare la lingua e i costumi dei nativi, in modo da poter trattare una pace equa e onesta con il grande capo e temibile guerriero Cochise (Jeff Chandler) e porre fine a una logorante e decennale guerra. La strada per intavolare le trattative sarà lunga e faticosa: Tom dovrà affrontare diffidenze e odi dall’una e dall’altra parte e ripensare la definizione di nemico e amico, facendo al contempo i conti con l’amore sempre più intenso per Sonseeahray (Debra Paget), giovane ragazza nativa piena di sogni e speranze.

Partendo dalla sceneggiatura di Albert Maltz (uno degli Hollywood Ten perseguitati dall’isteria anticomunista), il quale adatta il romanzo di Elliott Arnold (Blood Brother, 1947) sulla storia vera di Thomas “Tom” Jefferson Jeffords e di Cochise, e forte dell’incantevole fotografia in Technicolor di Ernest Palmer, Delmer Daves, già regista dell’ottimo noir La fuga (Dark Passage, 1947), confeziona uno dei western più progressisti del periodo successivo al secondo conflitto mondiale, un’opera intrisa di pacifismo e umanesimo e che fa dell’antirazzismo e della fratellanza tra popoli le proprie linee guida.
Benché Hollywood non fosse estranea a occasionali e goffi tentativi di umanizzazione dei nativi americani (basti pensare a Il massacro di Fort Apache di John Ford, uscito solo due anni prima), L’amante indiana (ennesimo titolo italiano piuttosto mal riuscito; di gran lunga migliore l’originale, Broken Arrow, che rimanda al simbolo di pace della “freccia spezzata”) è indubbiamente il film che maggiormente, in quel periodo storico, riuscì a offrire una vera e propria riabilitazione cinematografica degli storici nemici dei cowboys. La rappresentazione degli Apache non è scevra di difetti, certo: i due personaggi principali, Cochise e Sonseeahray, non sono interpretati da nativi; tuttavia, contestualizzato nel suo periodo storico e tenendo ben presente che non si dovrebbe mai valutare il progressismo di un’opera passata attraverso gli standard moderni, il film di Daves rappresenta un deciso passo in avanti verso la revisione in senso progressista del genere.

Continuando sulla scia della rappresentazione degli Apache, non può non colpire lo sforzo sincero e maturo adoperato da Daves per ritrarre questo popolo nella maniera più bilanciata possibile: gli indiani del suo film non sono né ingenui primitivi, in attesa di essere salvati dalla civilizzazione bianca, né tantomeno barbari selvaggi, irrazionali e assetati di sangue; più volte nel corso della pellicola viene fatto capire (se non a noi contemporanei, sicuramente agli spettatori del 1950) quanto queste persone siano, dopotutto, simili a noi, quanto siano dotate di sentimenti, intelligenza e umorismo.
Il pubblico riesce a simpatizzare con i tanto temuti Apache, i quali hanno un forte senso di onore e di giustizia e possono vantare un grande genio tattico e strategico; capiamo dunque le loro forze e le loro debolezze, riuscendo di conseguenza a inquadrarli come membri della stessa, grande famiglia umana di cui credevamo di essere i soli degni membri. Lo stesso Tom, riflettendo fra sé dopo aver salvato il ragazzo nativo, dirà proprio: “Funny, it never struck me that an Apache woman would cry over her son like any other woman. ‘The Apaches are wild animals’, we all said” (“Strano, non avevo mai pensato che una donna Apache potesse piangere per suo figlio proprio come qualsiasi altra donna. ‘Gli Apache sono bestie selvagge’, dicevamo tutti.”).
Il nostro protagonista Tom (il quale funge anche da narratore della vicenda), tra l’altro, non è il tipico salvatore bianco, che mostra ai selvaggi una via che sarebbero altrimenti troppo stupidi per comprendere e intraprendere da soli; al contrario, egli è poco più di un MacGuffin, poiché il desiderio di pace e convivenza albergava già nel cuore di (alcuni) nativi. Inoltre, Tom, pur essendo inequivocabilmente l’eroe, dimostra di non avere sempre il pieno controllo della situazione: basti pensare alla scena in cui viene salvato dal feroce linciaggio della folla, convinta che sia una spia degli Apache; oppure alla tragedia finale, quando sarà proprio il temuto Cochise a dimostrare maturità, calma e saggezza, mentre il nostro cowboy sarebbe già stato pronto a sacrificare la pace duramente conquistata per ottenere la propria vendetta.
Ed è proprio il rapporto fra Tom e Cochise il vero punto di forza del film: oltre a fornire al leggendario James Stewart, qui a dir poco straordinario, e allo statuario Jeff Chandler un’ottima opportunità per sfoggiare le proprie doti attoriali, l’amicizia fraterna e sincera tra i due è scritta da Maltz in modo tale da evidenziare quanto le differenze siano meramente culturali, insufficienti per soverchiare le loro somiglianze, i loro obiettivi comuni, la loro reciproca simpatia. Tom riesce a far capire a Cochise che l’uomo bianco può essere in grado di rispettare la parola data, mentre il leader Apache mostra al cowboy il complesso punto di vista di un popolo diviso e martoriato, il tutto anche con diversi momenti umoristici che riescono ad alleviare momentaneamente la tensione creatasi intorno alla richiesta di armistizio.
Altro rapporto fondamentale, che corrisponde purtroppo alla parte in cui il film “zoppica” di più (principalmente a causa di una scrittura certamente non pessima, ma nemmeno entusiasmante), è quello fra Tom e Sonseeahray; quest’ultima, il cui nome è traducibile in “Stella del Mattino”, in un certo senso diventa il simbolo e la personificazione della pace, la dimostrazione materiale della possibilità, per questi due popoli che si sono inflitti così tanto dolore a vicenda, della possibilità di convivere serenamente. L’amore fra i due, ispiratore del titolo italiano della pellicola, viene mostrato in tutta la sua complessità, evidenziata da Cochise: egli, infatti, ammonisce i due amanti, ricordandogli che il loro amore verrà osteggiato sia da alcuni Apache, che vedranno sempre l’uomo bianco con una certa dose di sfiducia e odio, sia da molti bianchi, il cui razzismo li porterà a ridere alle spalle della coppia, denigrandola ed emarginandola.
Proprio la complessità dell’uomo è un altro aspetto su cui si concentra Daves: Tom a un certo punto dirà che ci sono americani di cui si fida e indiani di cui non si fida, sentenza che troverà l’appoggio di Cochise.
Questa linea di pensiero è evidente nella presentazione di altri personaggi del film, come il “generale cristiano” (anch’egli realmente esistito) Oliver Otis Howard (Basil Ruysdael), ufficiale dell’esercito che appoggia, in nome di una lettura personale della Bibbia, priva secondo lui di indicazioni sulla pigmentazione della pelle dei figli di Dio, lo sforzo di pace, uguaglianza e fratellanza promosso da Jeffords; al contrario, ci viene mostrato l’aggressivo militarismo del leggendario condottiero Geronimo (Jay Silverheels, attore canadese di autentica origine nativa), motivato dall’odio nei confronti dei bianchi e disposto a infrangere l’armistizio. Geronimo non sarà poi il solo a rompere il patto instaurato da Cochise e dal generale Howard: Ben Slade (Will Geer), personaggio speculare a Geronimo per via dell’odio indiscriminato verso gli indiani (dovuto a una funesta perdita), scatenerà l’evento che porterà al tragico finale del film.

L’amante indiana, in conclusione, è un’opera fondamentale per capire la futura revisione del genere: oltre a tutto quello che abbiamo detto in precedenza, infatti, non va dimenticato che la pellicola si inquadra perfettamente nel western, rispettandone diversi topoi. Ci sono le sparatorie, gli agguati, le cavalcate in grandi spazi aperti, i cowboy e gli indiani e le scazzottate nei saloon, certo; ora, però, sono arricchite da una complessità, fornita sia ai classici “nemici” del selvaggio West, sia al ruolo storico complessivo degli Stati Uniti nelle guerre indiane (la cui responsabilità viene fatta ricadere qui proprio sugli States), che non può non lasciare soddisfatti.
Mezzogiorno di fuoco (High Noon), Fred Zinnemann, 1952

Il giorno del suo matrimonio con la giovane Amy Fowler (Grace Kelly) e del suo programmato ritiro a vita privata, Will Kane (Gary Cooper), sceriffo di una piccola cittadina nel territorio del New Mexico, deve affrontare una fatale minaccia: il famigerato fuorilegge Frank Miller (Ian MacDonald), sbattuto in galera cinque anni prima da Kane, è stato scagionato e arriverà in città con il treno di mezzogiorno per mettere in atto, insieme ai suoi tre fidati pistoleri in attesa alla stazione, la sua spietata vendetta. Abbandonato dai propri cittadini, i quali, chi per vigliaccheria, chi per ripicca e chi per omertà, gli voltano le spalle, Kane dovrà affrontare da solo una sfida senza esclusione di colpi, consapevole che non può semplicemente scappare: al destino e al dovere non si può sfuggire per sempre…
John Wayne, il quale era stata la prima scelta della produzione per interpretare il ruolo di Will Kane, definì Mezzogiorno di fuoco in un’intervista come “la cosa più un-American che abbia mai visto in tutta la mia vita.” La cosa più sorprendente è che questo leggendario attore e rinomato pezzo di sterco, in un certo senso, aveva pienamente ragione: il film di Fred Zinnemann smonta pezzo dopo pezzo tutti quei puri e intoccabili valori percepiti come propri della comunità bianca del vecchio West e quindi, per esteso, della società statunitense borghese e benpensante. Benché Kane sia convinto di poter facilmente radunare una posse per eliminare la minaccia di Frank Miller, i cittadini della piccola cittadina del New Mexico, i quali in un western classico, in nome degli alti ideali di giustizia, ordine e onore, si sarebbero uniti immediatamente e senza pensarci due volte al rappresentante della legge, vengono presentati in tutta la loro realistica debolezza: alcuni sono immobilizzati dalla codardia, convinti che lo sceriffo Kane non potrà mai respingere la devastante e vendicativa furia di Miller; altri auspicano con trepidante attesa il ritorno del selvaggio fuorilegge, ricordandosi i “bei tempi” del “si stava meglio quando si stava peggio” (oppure, utilizzando una formula ben più familiare a noi contemporanei, “quando c’era lui…”); altri ancora, invece, mostrano menefreghismo, ingratitudine, codardia, cinico adattamento alle circostanze (c’è chi sta già preparando la bara di Will Kane) ed egoismo, tutte qualità che non rientrano affatto nella descrizione tipica del nobile cittadino americano.
La critica della comunità non si ferma affatto ai singoli membri della stessa, anzi; sono soprattutto i rappresentanti delle istituzioni a deludere le aspettative tanto di Kane quanto del pubblico. Il giudice (Otto Kruger) che condannò Miller alla galera e alla forca decide immediatamente di lasciare la cittadina, offrendo come scusa delle sue azioni non solo le proprie passate esperienze, ma l’appropriato paragone tra la figura del famigerato fuorilegge e quella del tiranno greco Pisistrato, il quale, una volta tornato al potere dopo essere stato cacciato, venne accolto a braccia aperte dagli stessi cittadini che lo avevano cacciato, che in seguito lo avrebbero esaltato mentre giustiziava i membri del vecchio governo. Non fa una bellissima figura nemmeno il sindaco della città (Thomas Mitchell), il quale rinuncia a tutte le buone parole di stima spese nei confronti dell’amico Kane in nome del futuro del paese: d’altronde, che cosa penseranno gli investitori che porteranno ricchezza, prosperità e civiltà a Ovest quando leggeranno sui giornali che per le strade di questa città ci si ammazza ancora in sparatorie all’ultimo sangue? Questa domanda retorica, posta nel corso dell’eccellente scena del dibattito in chiesa, pone il sigillo definitivo all’abbandono totale del proprio sceriffo da parte della comunità. Forse l’unico che non delude completamente è il vecchio sceriffo (Lon Chaney Jr.), mentore e amico di lunga data di Kane: l’anziano tutore della legge, ormai impossibilitato all’azione dall’età e dall’artrite, spiega cinicamente quanto la figura dello sceriffo sia considerata dai più come un semplice usa e getta, una sagoma dietro cui ripararsi quando più serve, certo, ma abbandonata a marcire quando la sua utilità evapora, poiché sotto sotto, secondo il vecchio, alla gente non frega un bel niente del law and order.
Interessante in questo senso è notare come la figura di sceriffo venga vista solo come un modo di scalare i ranghi sociali dal vice di Kane, Harvey Pell (Lloyd Bridges), piccolo uomo in costante difetto, il quale rifiuta di aiutare Will poiché convinto che il suo superiore non lo abbia menzionato e supportato quando c’era da scegliere chi sarebbe stato il nuovo sceriffo.
L’ingenua infantilità e immaturità di Harvey, contrapposta alla stoica virilità di Kane, viene sottolineata da un grande personaggio presente nella pellicola: Helen Ramírez (Katy Jurado), amante prima di Frank Miller, poi di Will e infine di Harvey, è una coraggiosa e determinata donna d’affari (altro personaggio non esattamente comune nel genere), che abbandona la città prima dell’arrivo di Miller solo in quanto non più legata sentimentalmente allo sceriffo; in caso contrario, avrebbe impugnato la pistola e sarebbe rimasta a combattere ed eventualmente morire a fianco del suo amato. È proprio questo che Helen dice a un altro personaggio femminile, la giovane Amy, reduce da un matrimonio appena celebrato e già in crisi.
La “dolce mogliettina” interpretata da Grace Kelly, diventata quacchera dopo la morte violenta del padre e del fratello e quindi avversa alle armi e alla violenza, fa di tutto per convincere il marito a lasciare la città e partire con lei, minacciandolo e implorandolo. Tuttavia, una volta confrontatasi con Helen, pur continuando a non capire la testarda volontà di Kane, deciderà all’ultimo di rimanere, diventando decisiva per la risoluzione degli eventi e indispettendo ancora una volta i puristi del genere. Nel western classico, infatti, era quasi inaudito che una donna, custode del focolare e portatrice di ben altri valori, salvasse l’uomo-eroe da morte certa; eppure Amy, contravvenendo alla sua stessa religione, uccide uno degli scagnozzi di Miller e permette al marito di eliminare una volta per tutte il crudele fuorilegge.

Tutto ciò è possibile perché, ancora una volta e pur avendone l’aspetto, Will Kane non è il classico eroe senza macchia e senza paura. In più occasioni, nel corso della stupenda pellicola, possiamo vedere lo strepitoso Gary Cooper in preda alle proprie debolezze: egli ha inequivocabilmente paura, è deluso dai propri concittadini, dalle istituzioni e dalla società, è arrabbiato con chi, fino a qualche ora prima, sbandierava ideali di amicizia, solidarietà e comunità, e che ora invece si rivela in tutta la sua infida vigliaccheria. Il complesso e squisitamente umano strato sentimentale di Kane non gli impedisce, tuttavia, di ergersi a rappresentante terreno di purissimi ideali, di diventare veramente e forse come mai prima d’ora un autentico tutore della Legge. Più volte gli viene chiesto perché non scappa, perché non abbandona la città insieme alla moglie, perché non si mette in salvo ed evita di buttarsi in una lotta che non può che avere un solo, scontato finale; Kane non sa come rispondere, forse perché nemmeno lui sa di essere guidato da qualcosa di più elevato di se stesso, qualcosa di cui è diventato la personificazione in un mondo di cinici, corrotti e voltagabbana. Alla fine, Will è l’uomo solo per eccellenza, abbandonato dalla società che ha passato la vita a proteggere e in cui ha da sempre creduto; deluso e disgustato, getta per terra, nello sporco e nella polvere, la sua tin star, la stella di latta simbolo di ideali traditi e paroloni da ipocriti.
Insomma, il cinismo, la revisione e la critica galoppano ad alta velocità in Mezzogiorno di fuoco, nonostante l’aspetto da western classico; non è quindi un caso che all’ultraconservatore e reazionario Wayne non sia andato a genio, senza contare che, in quello stesso periodo, egli era il presidente della MPA, la Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals (“Società cinematografica per la salvaguardia degli ideali americani”), ennesimo parto malsano della caccia alle streghe rosse da parte di Hollywood (in particolare) e degli Stati Uniti (in generale). John Wayne e moltissimi altri riconobbero nel film scritto (a partire da un racconto breve, The Tin Star, del 1947 scritto da John W. Cunningham) dal grande sceneggiatore Carl Foreman, altra vittima della lista nera di Hollywood per le sue passate associazioni comuniste, un’ovvia allegoria della blacklist hollywoodiana: Kane rimane da solo, emarginato e abbandonato, perché gli altri hanno troppa paura, sono apatici o addirittura collaborano con chi vorrebbe il suo male; alla fine, non ottiene alcun ringraziamento da parte di coloro a cui ha salvato il futuro. Lo stesso Gary Cooper, altro ardente conservatore e amico di Wayne, riconobbe l’evidente natura allegorica del film, eppure, nonostante avesse testimoniato di fronte all’HUAC (House Un-American Activities Committee, la commissione governativa deputata a stanare i comunisti o presunti tali nascosti nella società statunitense), diventò un convinto oppositore della lista nera.
Le reazioni suscitate e i contenuti presentati, in conclusione, non possono che rendere evidente quanto Mezzogiorno di fuoco sia un punto di partenza fondamentale per preparare il terreno della revisione del western. Una citazione diretta, per esempio, è riscontrabile nel capolavoro (che purtroppo non tratteremo nel corso di questo approfondimento) di Sergio Leone C’era una volta il West (1968), che riprende la scena dei tre pistoleri (uno dei quali, Jack Elam, ha una piccolissima parte in Mezzogiorno di fuoco) in attesa dell’arrivo di un treno alla stazione; già che parliamo di Leone, poi, impossibile non menzionare la presenza del leggendario Lee Van Cleef, che interpreta (nell’unico ruolo senza battute della sua carriera) uno dei tre scagnozzi di Miller.

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