BABYGIRL
L’illusione di uno scandalo
Di Miriam Padovan

Il tanto chiacchierato Babygirl, ultima fatica della regista olandese Halina Reijn, arriva in sala carico di aspettative e promesse di scandalo. Ma, come spesso accade con le provocazioni preconfezionate, il vero scandalo sta nell’assenza di qualcosa di realmente sovversivo. Presentato come un thriller erotico con un taglio femminista e moderno, il film finisce per rimanere impantanato nelle sabbie mobili di una narrazione poco coraggiosa e un’estetica che si autocensura.

La storia segue Romy, una donna di successo, capo di una società di intelligenza artificiale, che ha tutto…
tranne una vita sessuale soddisfacente. Suo marito (un Antonio Banderas così perfettamente inutile) non riesce a cogliere i suoi bisogni più profondi. Ed ecco che compare Samuel, giovane, affascinante e con una laurea honoris causa in psicologia del BDSM. In due sguardi capisce che Romy vuole essere dominata e, senza bisogno di troppi preliminari, la trasporta in un universo fatto di comandi sussurrati e latte versato in ciotole. Il tutto condito da una serie di situazioni che vorrebbero essere trasgressive ma che, alla fine, risultano meno eccitanti di un catalogo Ikea.
L’idea alla base del film è chiara: esplorare il desiderio femminile da un punto di vista inedito, ribaltando i ruoli di potere nelle dinamiche di dominazione e sottomissione. Romy, interpretata da Nicole Kidman, è una donna di successo, brillante e inarrestabile nella sua carriera, che trova però nella sfera sessuale uno spazio di abbandono e regressione. Il giovane Samuel (Harris Dickinson) incarna invece il nuovo ideale del dominatore: giovane, atletico, con una vena didattica da guru della liberazione sessuale. Fin qui, tutto bene.
Ma il problema è che Babygirl si ferma sempre un passo prima del vero sconvolgimento. Le scene erotiche si muovono su una soglia imbarazzante tra il softcore e il ridicolo involontario ed il tutto viene imbastito con un senso di didascalismo che lo rende più simile a un workshop sul consenso che a un racconto viscerale sul desiderio. Quando Samuel comanda a Romy di bere latte da una ciotola come un gattino sottomesso, non si sa bene se ridere o scuotere la testa. Babygirl vorrebbe scuotere le fondamenta del cinema erotico, ma il suo approccio è troppo patinato, quasi timoroso di spingersi oltre i confini della vera perversione. La regia di Reijn è attenta a non offendere nessuno, mantenendo un distacco che rende impossibile provare autentica tensione erotica. La sceneggiatura, nel frattempo, sembra costruita con un manuale di sociologia alla mano, con continui rimandi a temi di empowerment, controllo e libertà, che però rimangono in superficie.
Antonio Banderas, nei panni del marito tradito, è un altro enigma. Il suo personaggio è talmente perfetto, devoto e progressista che il suo dolore per il tradimento di Romy sembra una sorta di ingiustizia cosmica. È come se il film volesse dire: “Care donne, adesso che i vostri uomini sono finalmente gentili e rispettosi, davvero volete tradirli?” Un ribaltamento narrativo che sembra quasi un ammonimento moralista più che un’esplorazione sincera della libertà sessuale femminile.

E qui arriviamo a un punto interessante: la fotografia. Babygirl visivamente si colloca nel filone A24, con quei toni freddi, la luce naturale e i contrasti cromatici che sembrano studiati per catturare l’attenzione dello spettatore hipster. Ma la grande differenza tra i veri capolavori della casa di produzione e questo film è che manca un’anima visiva autentica. Se in opere come Midsommar – Il villaggio dei dannati (Midsommar, Ari Aster, 2019) o Euphoria (Sam Levinson, 2019-) la fotografia è un elemento narrativo in sé, capace di amplificare le emozioni e creare universi sensoriali, qui la scelta estetica appare come un abito di scena ben confezionato, ma privo di sostanza. Il gioco di luci rosse e ombre soffuse tenta di evocare sensualità e mistero, ma il risultato è semplicemente un’ossessione per il “bello da vedere” che sterilizza ogni tensione.

Alla fine, Babygirl si riduce ad essere troppo calcolato per scandalizzare davvero, troppo didascalico per essere coinvolgente, troppo trattenuto per essere un vero thriller erotico. Se cercavate il film che avrebbe sdoganato il desiderio femminile in modo potente e senza filtri, questo non è il caso. Se invece volete vedere Nicole Kidman in un ruolo che avrebbe potuto essere memorabile, ma che viene soffocato da una sceneggiatura impacciata, allora forse potreste dargli una possibilità. In fondo, anche Cinquanta sfumature di grigio aveva il suo pubblico.

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