OPEN HEARTS
Di Alessia Vannini

Open Hearts (Elsker dig for evigt, 2002) di Susanne Bier è un film che si inserisce nel solco del Dogma 95, ed occupa la posizione Dogma #28 nella lista ufficiale dei film riconosciuti come facenti parte del movimento.
Il film si colloca quindi all’interno di un movimento che pretendeva la “purezza” del cinema: niente luci artificiali, niente musiche non diegetiche, niente effetti speciali. Eppure Bier, nonostante utilizzi una camera a mano e luci naturali, tradisce – come i personaggi del suo film fanno con i loro compagni – alcune di queste regole, inserendo della musica extradiegetica e rompendo così la rigidità del Dogma per servire meglio la sua visione.

Questo film si ritaglia una posizione di rilievo nel panorama del Dogma anche per il fatto che è uno tra i soli due film del movimento – oltre a Italian for Beginners (Italiensk for begyndere, Lone Scherfig, 2000) – ad esser stato diretto da una donna.

Nel cast brilla un giovane e ormai celeberrimo Mads Mikkelsen, che interpreta uno dei personaggi più moralmente ambigui del film. L’attore danese ritrae qui il medico Johannes, un padre di famiglia che si lascia presto andare alla tentazione quando una donna giovane e vulnerabile entra a far parte della sua vita. Sebbene molte delle sue azioni potrebbero essere etichettate come immorali, il ritratto realistico e fortemente umano che ne fa Mikkelsen ci porta in parte ad empatizzare con lui – o quantomeno a cercare di vedere la situazione anche dal suo punto di vista.
Non lasciarsi abbandonare alla tentazione non sempre risulta facile, e Johannes permette alle sue pulsioni di prendere il sopravvento.
Le dinamiche dell’incontro tra Johannes e la giovane Cecilie (Sonja Richter), che presto diventerà la sua amante, è piuttosto tragicomico: i due, infatti, si incontrano in ospedale dopo che la moglie di lui, Marie (Paprika Steen), investe il ragazzo di Cecilie, Joachim (Nikolaj Lie Kaas), con l’automobile, rendendolo tetraplegico.
Joachim, innamorato profondamente di Cecilie, decide di distaccarsi da lei, cessando di rivolgerle la parola. Ancora una volta, i personaggi – stavolta rientrando nei dettami del Dogma – sono fortemente realistici: Joachim non rifiuta Cecilie per disprezzo nei suoi confronti, ma tutt’al contrario per il desiderio – paradossale ma sincero – di proteggerla e restituirle una vita piena.

Joachim la ama e vorrebbe che lei non si sentisse in dovere di passare il resto della vita a badare ad un uomo completamente paralizzato, perché è una donna bella e giovane e non è giusto che sia lui a tarparle le ali. Ed è proprio così che subentrerà – per darle supporto e poi molto più di questo – l’affascinante dottore Johannes.
Al cuore della storia troviamo quindi una rete di relazioni spezzate, desideri disordinati, scelte moralmente ambigue. Nessuno dei personaggi è “buono” nel senso tradizionale del termine, ma ognuno è profondamente umano.

In particolare, Bier riesce a costruire un racconto in cui l’empatia non nasce dalla condivisione dei valori, ma dalla comprensione dei bisogni — spesso incoerenti — che muovono i protagonisti.

Bier evita facili vittimismi e rifiuta di dipingere figure “positive” in senso assoluto, rendendo l’autenticità dei personaggi e dei loro conflitti la forza del film stesso: ogni personaggio è vulnerabile, egoista, confuso. In questo modo, il film diventa una riflessione lucida e dolorosa sulla fragilità delle relazioni e sull’imprevedibilità del desiderio. Talvolta, per raggiungere la nostra felicità, dobbiamo ferire persone che amiamo e lasciare andare il passato. È una pillola difficile da buttar giù, ma d’altronde il Dogma vuole proprio questo: schiaffarci in faccia una realtà che noi molto spesso cerchiamo di negare, idealizzando la vita come avviene nei film e rifugiandoci in un mondo fittizio che non rispecchia la complessità e l’asprezza della realtà. Bier ci costringe a guardare negli occhi la fragilità dell’animo umano, nudi ed impotenti, senza rifugi o abbellimenti, proprio come voleva (forse) il Dogma.
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