APPROFONDIMENTI
IL WESTERN REVISIONISTA, PARTE V – CLINT EASTWOOD
Di Giovanni “Fusco” Pinotti
Un cappello scuro, un poncho polveroso sulle spalle, il cigarillo tra i denti, la pistola che riposa nella fondina sempre pronta a scattare fulminea, lo sguardo glaciale tipico del più efficiente dispensatore di morte: sono questi i tratti estetici che abbiamo universalmente imparato ad amare e a riconoscere propri del laconico, solitario e scaltro pistolero senza nome della leoniana trilogia del dollaro.
Ma Clint Eastwood è molto più di un semplice esecutore delle volontà registiche di Sergio Leone, al quale comunque deve tantissimo per averlo lanciato sul palcoscenico internazionale e avergli trasmesso preziose lezioni di cinema e messinscena. Dopo una notevole quantità di piccole parti di comparsa rivestite in diverse produzioni Universal degli anni Cinquanta e un ruolo di rilievo nella serie televisiva Gli uomini della prateria (Rawhide, Charles Marquis Warren, 1959-65), infatti, fu proprio il regista romano a vedere un grande potenziale nel volto del giovane attore californiano. Con Leone, Eastwood ebbe l’opportunità di entrare in contatto non solo con un metodo di fare cinema del tutto diverso a quello cui era abituato e con un autore dalla forte personalità artistica, ma anche con una netta differenza nella gestione del genere: il western italiano era molto più chiassoso, sporco, violento e fumettistico rispetto alla sua classica e originale declinazione. Con l’intelligenza e l’abilità dei più grandi artisti, Eastwood fu in grado di raccogliere sia la tradizione hollywoodiana sia la sua bastardizzazione italiana, dando vita a una rielaborazione del tutto personale di queste due importanti influenze. Una parte decisiva della revisione eastwoodiana consiste appunto nella reinvenzione della propria immagine e del western americano a partire dalla revisione italiana, modificata e adattata tanto al contesto statunitense quanto alle personalissime esigenze artistiche di un attore desideroso di prendere in mano le redini della sua carriera e fare il definitivo balzo in avanti verso la dimensione autoriale. I tre film che prenderemo in esame questo mese – Lo straniero senza nome (High Plains Drifter, 1973); Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales, 1976); Il cavaliere pallido (Pale Rider, 1985) – contribuiscono (chi più e chi meno) a un fondamentale passo in avanti per il genere che troverà il suo culmine nel 1992 con il capolavoro Gli spietati (Unforgiven).
Un autore neoclassico
Penso che la storia sia sovrana, e che tutto il resto che gli sta intorno sia arte interpretativa, che si tratti di attori, regista, etc. L’ingrediente principale per un buon western è una storia davvero valida; ovviamente è molto importante anche il modo in cui la racconti e chi scegli per interpretarla.1
Quando si parla del cinema di Clint Eastwood, l’aggettivo che più di tutti viene utilizzato per descriverlo è “neoclassico”, e a ragion veduta. Molte delle scelte registiche attuate dal nostro rimandano ai grandi classici dell’età d’oro hollywoodiana, con il suo montaggio chiaro e misurato, la sua regia austera e priva di virtuosismi e una messinscena pulita e sobria. Anche dal punto di vista tematico, egli si rifà spesso e volentieri al classico, in quanto le storie narrate da Eastwood prediligono scelte e problematiche morali, con un umanesimo di fondo cinico nei confronti delle istituzioni ma fiducioso verso l’autentica purezza della collettività americana. Una grande cura nella scelta e nella gestione degli attori riflette poi la provenienza professionale del regista, il quale spesso soffriva, agli inizi della sua carriera ma anche durante Gli uomini della prateria, il fatto di essere diretto da mestieranti di dubbio valore.
Eppure, piuttosto che da luddista restio al cambiamento che auspica un ritorno ai tempi d’oro, Eastwood si comporta da artista in costante dialogo costruttivo e distruttivo con il classico: l’esperienza italiana e le lezioni dei suoi maestri Leone e Don Siegel (con il quale girò ben cinque film tra il 1968 e il 1979) diventano utilissimi strumenti per interrogare il passato culturale, cinematografico e storico degli Stati Uniti. La decisione di sfruttare il western, il genere americano per antonomasia, è figlia non solo dell’ovvia prosecuzione del pistolero senza nome, una persona filmica già avviata e ben ingranata nell’immaginario collettivo, ma anche del desiderio di parlare dell’America attraverso le sue radici e tramite la messa in discussione di topoi facilmente riconoscibili. Sebbene non si riconoscerà mai ufficialmente nella nouvelle vague hollywoodiana, alla quale guarderà sempre con simpatico distacco ma inequivocabile rispetto, Eastwood si inserisce a pieno titolo nel discorso di revisione portato avanti dai suoi contemporanei, pur preferendo storie e modalità prevalentemente (ci sono, infatti, diverse eccezioni di cui parleremo) classiche alle audaci scelte di Robert Altman, Sam Peckinpah e Arthur Penn.
Lo straniero senza nome: mettere un po’ di spaghetti nel classico
Quando abbiamo discusso di Mezzogiorno di fuoco (High Noon, Fred Zinnemann, 1952), ci siamo serviti del profondo disprezzo che John Wayne nutriva nei confronti dell’opera per capire in quale modo il film iniziasse pian piano a smontare il mito del West; ebbene, anche in quest’occasione sfrutteremo i pessimi gusti cinematografici dell’icona del genere, il quale rimase così sconvolto e infuriato dalla seconda fatica di Clint Eastwood dietro (e davanti) alla macchina da presa da scrivergli una feroce lettera carica di rimprovero paternalista e panzane ideologiche, riassumibile nella frase: “Questo non è il vero significato del West, e quello non è il popolo americano che ha colonizzato questo paese”.
Ma cosa fece infuriare Wayne così tanto quando vide Lo straniero senza nome? Per capirlo, occorre in primo luogo partire dalla trama. Un misterioso cavaliere senza nome venuto dal nulla (Eastwood) giunge nella città sperduta di Lago, abitata da individui pigri, egoisti, omertosi e vigliacchi. Lo Straniero, dopo aver facilmente liquidato i tre mercenari ingaggiati dai cittadini, accetta l’incarico di proteggere la popolazione dall’imminente ritorno di tre fuorilegge in cerca di vendetta, a patto di poter esercitare un controllo pressoché assoluto sulla città. Il primo western diretto da Eastwood è ricco della macabra ironia e della violenza tipiche di Leone; il protagonista è uno Straniero che, oltre a essere ben distante dal tipico eroe senza macchia, è decisamente più crudele del personaggio leoniano: non appena arriva a Lago, infatti, elimina in una sparatoria i tre pistoleri assoldati dalle autorità e violenta una donna che lo insulta, facendo immediatamente capire allo spettatore di non essere affatto un benevolo samaritano venuto a salvare degli innocenti. Lo Straniero esercita la violenza e il potere conferitogli con un gusto che, più che essere sadico, sembra essere vendicativo; veniamo a sapere, infatti, che i cittadini di Lago sono responsabili della morte del vecchio sceriffo Jim Duncan, ucciso a frustate (in una scena di una violenza inedita per il western classico) dagli stessi fuorilegge che ora minacciano la cittadina – ingaggiati e poi traditi dagli abitanti del paese – poiché era venuto a conoscenza dello scavo illegale nella vicina miniera d’oro, fonte di una ricchezza a cui nessuno voleva rinunciare.
Benché non venga mai detto esplicitamente, soprattutto per la grande fiducia che da sempre Eastwood nutre nel suo spettatore (fiducia evidentemente mal ripagata quando si tratta di Wayne), il regista di San Francisco lascia fortemente intendere, anche attraverso una riuscitissima sequenza onirica durante la quale il cowboy errante assiste alla crudele esecuzione del vecchio sceriffo, che lo Straniero altri non sia che lo spettro di Duncan, di ritorno dal mondo dei morti perché fu seppellito in una tomba senza nome, in cerca di vendetta contro gli ignavi codardi di Lago.
L’allegoria eastwoodiana, che recupera molto sia dagli “spaghetti western” sia dall’horror, smonta e ridicolizza il classico ideale da destino manifesto della purezza coloniale, individuando – in un’operazione che, in questo senso, ricorda il già citato Mezzogiorno di fuoco – nella corruzione, nella codardia e nella disonestà degli abitanti di Lago un peccato distruttivo e mortale. Lo sguardo di Eastwood è tutto meno che celebrativo e ottimista: cupezza, cinismo e violenza dominano ogni minuto del suo soprannaturale e funereo western d’esordio. L’operazione viene portata a compimento verso il meraviglioso finale, quando lo Straniero ordina che tutti gli edifici vengano dipinti di un rosso acceso e che il nome di Lago venga cambiato in “Hell”, “Inferno”. Il rapido e infallibile proiettile di una giustizia implacabile e ineluttabile si abbatterà sugli abitanti di Hell e sui fuorilegge attraverso la pistola impugnata dallo Straniero, che dispenserà la sua vendetta circondato dalle fiamme.
Insomma, non dovrebbe risultare difficile ora capire l’astio di John Wayne nei confronti della pellicola. La cittadina della frontiera, il simbolo per eccellenza dell’ottimismo coloniale statunitense, viene crudelmente smascherata come una menzogna costruita sul e col sangue, un buco infernale dove odio e vendetta si mescolano e dove la giustizia viene affidata ai traditi, ovvero lo spettro dello sceriffo Duncan, e agli emarginati, come il nano Mordecai (Billy Curtis), dapprima oppresso dai suoi concittadini ma poi promosso a sceriffo e sindaco dallo Straniero, che lo prende in simpatia. Con Lo straniero senza nome, Eastwood e il western intraprendono strade inedite, destinate a esercitare una profonda influenza.
Il texano dagli occhi di ghiaccio: ricucire una nazione divisa
La guerra civile americana, il conflitto intestino sanguinario e fratricida che segnò la fine della schiavitù e delle spinte secessioniste, si concluse ufficialmente nel 1865, ma ora sappiamo che in realtà ha lasciato ferite così profonde da non poter essere rimarginate nemmeno con il tempo, con tracce di odi e vendette che si trascinano ancora oggi nel dibattito politico statunitense. Un tentativo di ricucire i rapporti lacerati di questo periodo così violento e controverso della storia degli States viene proposto dal nostro Clint con Il texano dagli occhi di ghiaccio (traduzione che mi chiedo cosa c’entri con il titolo originale, The Outlaw Josey Wales, anche perché Josey nel film ha sì lo sguardo glaciale di Clint, ma viene dal Missouri; fuggirà solo dopo, a trama già ben avviata, in Texas). Con quest’opera, tratta dal romanzo del 1973 Gone to Texas di Forrest Carter (il quale, dopo il successo del film, si scoprirà essere nientemeno che Asa Earl Carter, noto segregazionista e membro del KKK), Eastwood firmò il suo film all’epoca migliore, senza dubbio il più maturo e artisticamente completo. Se non mi credete, fidatevi delle parole di un certo Orson Welles, il quale aveva questo da dire in merito al film: “Clint Eastwood è il regista più sottovalutato al mondo oggi. […] E quando ho visto il film per la quarta volta, mi sono reso conto che rientra nel novero dei più grandi western, quelli di Ford, Hawks e così via. E gli faccio le mie congratulazioni”.2
Nel pieno della guerra civile, il pacifico contadino Josey Wales (Clint Eastwood) assiste impotente mentre un manipolo di guerriglieri nordisti guidati dallo spietato capitano Terrill (Bill McKinney) massacra sua moglie e suo figlio e dà fuoco alla sua fattoria. Sopravvissuto alla carneficina e desideroso di vendetta, l’uomo si unisce a una milizia guerrigliera confederata comandata dal capitano Fletcher (John Vernon), rifiutandosi di deporre le armi a guerra finita. Quando Terrill, malgrado gli avesse promesso l’amnistia, fa trucidare gli uomini di Fletcher disposti alla resa, Wales fugge e continua la sua guerra privata. Con una ricca taglia sulla testa e costantemente braccato dai cacciatori di taglie e dai nordisti, il guerriero solitario incontrerà diversi compagni di viaggio, tra cui il vecchio capo indiano Lone Watie (Chief Dan George, un vero capo tribù che abbiamo già incontrato in Piccolo grande uomo), la giovane Navajo Little Moonlight (Geraldine Keams), l’ingenua ragazza del Kansas Laura Lee (Sondra Locke, compagna di Eastwood tra il 1975 e il 1989) e un cane randagio che non si lascia intimorire dagli sputi al tabacco di Wales.
Dopo aver licenziato il regista originale della pellicola, Philip Kaufman, a causa di divergenze artistiche e di un’aspra rivalità dovuta all’attrazione provata da entrambi per Sondra Locke (vicenda che portò all’approvazione, da parte della Directors Guild of America, della cosiddetta “Eastwood rule”, secondo la quale un attore o un produttore non può licenziare un regista per poi prenderne il posto), Eastwood firmò con la solita grazia tecnica un western che riscontrava diverse similitudini tematiche con i film della New Hollywood, in particolare per quanto riguarda la rappresentazione complessa e umana dei nativi americani: Chief Dan George regala un’altra interpretazione al contempo toccante e divertentissima, e il suo Lone Watie diventa la spalla perfetta per Josey. Il vecchio capo Cherokee diventa il simbolo di intere popolazioni sfruttate, tradite e abbandonate dall’uomo bianco; memorabile, in questo senso, la scena in cui ricorda la frase pronunciata da Lincoln: “Endeavor to persevere”, “Sforzarsi di perseverare”, parole al vento e promesse vuote che portarono la sua tribù a dichiarare guerra all’Unione. Memorabile è anche la scena dei negoziati tra Josey e il temibile capo guerriero Comanche Ten Bears (Will Sampson, un altro attore che abbiamo già incrociato in Buffalo Bill e gli indiani, uscito nello stesso anno del film di Eastwood), quando i due, potenzialmente pronti a mettere mano alle armi, capiscono che non è necessario spargere inutilmente sangue e che si può vivere insieme. Non so se John Wayne abbia visto o no Il texano dagli occhi di ghiaccio, ma credo che gli sarebbe venuto un colpo apoplettico se avesse visto Eastwood diventare fratello di sangue di uno sporco Comanche.
Il film prosegue un discorso caro al cineasta californiano, ovvero quello della violenza e della vendetta a essa collegata. Il protagonista interpretato da Eastwood questa volta ha un nome, un cognome e una storia ben definita e che lo definisce. Il laconico fuorilegge non è mosso dal desiderio di arricchirsi o da intenzioni soprannaturali di giustizia, ma da un (auto)distruttivo sentimento di vendetta. Per questo motivo, Wales precipiterà sempre più a fondo in un vortice di violenza e cinismo; ciò che gli interessa non è affatto la causa confederata, ma soddisfare piuttosto una sete di sangue che non potrà essere placata fino a quando il dolore per la perdita dei suoi cari e l’odio nei confronti di chi glieli ha portati via albergheranno nel suo cuore.
Josey inizierà a ritrovare la pace interiore ed esteriore soltanto quando inizierà a costruire intorno a sé una piccola comunità di sbandati, perdenti ed emarginati, proprio come lui. Di nuovo, siamo ben lontani dagli ottimisti e ingenui coloni fiduciosi nelle istituzioni e ideologicamente saldi; la comune anarchica (“I governi non vivono insieme, gli uomini sì”, dice Josey a Ten Bears) che si forma nel ranch di cui Wales si impossessa vede l’appianarsi di tutte le differenze – su tutte, quella ideologica tra unionisti e confederati e quella razziale tra bianchi e indiani – in nome di una collettività eterogenea fondata sul sostegno reciproco. La catarsi finale, rappresentata dall’ultimo e infinitamente soddisfacente scontro tra Terrill e Wales, porrà fine agli incubi di Josey e gli permetterà di abbandonare una volta per tutte la via della violenza.
Oltre a contribuire alla riabilitazione cinematografica dei nativi, quindi, Il texano dagli occhi di ghiaccio è un film che, pur presentando le solite sparatorie (girate con mano divina da Eastwood, coadiuvato dalla strepitosa fotografia del suo fedele collaboratore Bruce Surtees), si fa portatore di un forte messaggio umanista e antibellico. “Gli uomini possono vivere insieme senza massacrarsi a vicenda”, afferma tra i denti Josey Wales, portavoce di un popolo stanco e rovinato da una devastante guerra civile in cui tutti, compreso Wales, sono morti un po’.
Il cavaliere pallido: ritorno alla tradizione?
Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno.
– Apocalisse 6:7-8
Uno dei western più amati e riconoscibili di tutti i tempi è Il cavaliere della valle solitaria (Shane, George Stevens, 1953), la storia di un misterioso straniero che arriva dal nulla e aiuta i coloni locali a resistere alle prepotenti minacce dei grandi allevatori. La trama è tra le più classiche che esistano, e Clint Eastwood decide di riprenderla, pur con importanti modifiche e con il suo inimitabile tocco personale, nel suo Il cavaliere pallido, dove una comunità di cercatori d’oro sull’orlo di cedere alle violente pressioni del ricchissimo proprietario di miniere Coy LaHood (Richard Dysart) si raduna intorno al Predicatore (Preacher in originale, interpretato da Eastwood), un enigmatico uomo di fede comparso dal nulla sul dorso di un cavallo pallido e in grado non solo di darle di santa ragione agli scagnozzi di LaHood, ma anche di spronare gli altrimenti inermi coloni alla resistenza.
Di nuovo, le similitudini con il classico sono più che evidenti, ma la genialità di Eastwood, il quale riesce a migliorare di gran lunga la già ottima opera di riferimento, consiste nell’inserire nuovamente l’elemento soprannaturale all’interno della vicenda. Proprio come lo Straniero nel 1973, il Predicatore sembra emergere da una dimensione ultraterrena o addirittura dalle pagine della Bibbia, evocato dalla preghiera disperata della giovane Megan (Sydney Penny). Il nuovo arrivato è capace di emanare un carisma tale da convincere i cercatori d’oro di poter resistere agli avidi lupi che bussano insistentemente alla loro porta.
L’alone di mistero che lo circonda viene alimentato dal suo rifiuto di portare con sé una pistola e dagli apparentemente inspiegabili fori di proiettile che gli puntellano la schiena. Eastwood ci farà capire che, proprio come lo Straniero (anche se in maniera decisamente meno crudele e più benevola), il Predicatore è un emissario (o addirittura un angelo) della Morte, uno spettro reincarnato per ristabilire giustizia in un mondo di (pre)potenti e abbattere chi in vita lo aveva tradito impunemente con tutto il peso della vendetta ultraterrena.
Infatti, la storia del Predicatore si lega a quella dello sceriffo Stockburn (John Russell), un corrotto e spietato pistolero che, insieme ai suoi sei vicesceriffi, viene ingaggiato da LaHood per soffocare le ultime resistenze dei coloni. Quando il magnate gli parla del misterioso peregrino venuto in soccorso dei cercatori d’oro, Stockburn pare scosso e turbato, ma riesce a calmarsi subito dopo in quanto, come ricorda più a se stesso che a LaHood, l’uomo che corrisponde alla descrizione fatta è morto tanto tempo fa. La sconvolgente e fatale rivelazione finale ricorderà a Stockburn e ai suoi vice che, proprio come ci veniva detto ne Lo straniero senza nome, non si può sfuggire alle colpe (o meglio, ai peccati) del proprio passato: arriverà sempre il momento di pagare il fio, e questa volta il conto verrà presentato da un Predicatore che, con titanica riluttanza e in una scena che sembra ricordare i migliori horror slasher, impugnerà di nuovo le pistole e infliggerà al suo vecchio nemico la stessa, macabra sentenza di cui egli stesso fu vittima.
Il film di Eastwood (primo grande western prodotto a Hollywood dopo la catastrofe de I cancelli del cielo di Michael Cimino, di cui parleremo nell’ultima parte di questo approfondimento) funge anche da grande atto di accusa nei confronti di un’America che sembra aver perso la propria via, cosa non scontata considerato che la pellicola uscì in pieno periodo reaganiano. Il regista di San Francisco, da libertario di destra, punta il dito (e la pistola) contro il capitalismo predatorio dei grandi magnati, colpevoli di spazzare via le piccole e medie comunità, adoperando a tal scopo i mezzi più ignobili e brutali, e di devastare, accecati dalla brama di un profitto smisurato, l’ameno paesaggio naturale.
Colpisce molto, infatti, il sottotesto ecologico di questo western, che culmina con la distruzione del chiassoso e rapace sito minatorio di LaHood, fatto saltare in aria con la dinamite. Eastwood individua nella comunità dei cercatori d’oro l’anima più autentica e genuina di un’America legata da un forte spirito comunitario, da un incrollabile senso del dovere e da un encomiabile capacità di lavorare duro e mettersi l’uno al servizio dell’altro; un’America, forse, che non esiste più, e che stava iniziando a essere lentamente cancellata proprio dall’edonismo individualista sfrenato degli anni Ottanta.
Penultime considerazioni
Il discorso della revisione eastwoodiana del western non può dirsi completo senza la sua ultima parte, quella più importante, significativa e profonda rappresentata dal trionfo de Gli spietati, che affronteremo insieme al disastroso capolavoro di Cimino nel prossimo numero. Ciò che abbiamo imparato dalle prime tre fatiche del nostro Clint nel genere, comunque, è che il suo western, pur dialogando e interrogando il classico, è fortemente crepuscolare e morale, con una visione cupa, moralmente ambigua e talvolta tragica dei suoi personaggi, della trama, della storia e della politica degli Stati Uniti. Il mondo attraversato dai protagonisti eastwoodiani è cinico e aspro, fatto di una violenza costante e appesantito da odi personali, un mondo dove la giustizia ha da tempo lasciato spazio alla vendetta e dove l’unico modo per sopravvivere alla legge del più forte è impugnare le armi o affidarsi a un intervento soprannaturale che, piuttosto che mettere in discussione la realtà, la riafferma con divina prepotenza.
Compreso tutto questo, sarà molto più semplice addentrarsi nel magnum opus del Clintone, punto d’arrivo di tutte le sue tendenze revisioniste. Personalmente, non vedo l’ora.
1 Clint Eastwood intervistato dall’American Film Institute.
2 Orson Welles intervistato da Merv Griffin, 1982.
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