N5 2025

APOLOGIA DEI PREQUEL

Analisi e apprezzamento della trilogia prequel di Star Wars

Di Giovanni “Fusco” Pinotti

Tra le innumerevoli trilogie che hanno attraversato la storia del cinema, quella dei prequel di Star Wars è una delle più massacrate e vituperate. All’epoca del suo esordio nelle sale, la serie di film usciti tra il 1999 e il 2005 (son già passati vent’anni, aiuto…) fu, più o meno giustamente, affossata sia dai critici sia da buona parte del pubblico, con schiere di fan pronti a radunarsi al grido di frasi puerili, insensate e strabordanti di privilegio primomondista quali, “George Lucas ha rovinato la mia infanzia!” et similia.  Al di là dei capricci dei nerd, i prequel diretti dal regista di Modesto – Star Wars – Episodio I – La minaccia  fantasma (Star Wars: Episode I – The Phantom Menace), 1999; Star Wars – Episodio II – L’attacco dei cloni (Star Wars: Episode II – Attack of the Clones), 2002; Star Wars – Episodio III – La vendetta dei Sith (Star Wars: Episode III – Revenge of the Sith), 2005 – presentano grossi e non indifferenti problemi, con i quali più o meno tutti siamo ormai più che familiari, in quanto sono stati ripetuti ad nauseam fino a diventare parte integrante della concezione popolare di questi film: una CGI spesso non invecchiata benissimo divora i set, fatti di blue e green screen; molti dialoghi, specie nelle scene romantiche, fanno accapponare la pelle, quando non risultano addirittura troppo irrealistici perfino per gli standard della galassia lontana lontana; l’umorismo infantile di Jar Jar Binks e la sua stessa esistenza diventano insostenibili; i Midi-chlorian alterano in maniera non indifferente la romantica e spirituale concezione della Forza fornitaci dalla trilogia originale; certi (prevalentemente innocui) stereotipi razziali e antisemiti hanno provocato prevedibili reazioni  scandalizzate; le scene di politica possono risultare pesanti; la regia di Lucas è mediocre; la recitazione talvolta non raggiunge gli standard della decenza professionale… Insomma, i difetti esistono e sono innegabili – personalmente, sono d’accordo con diverse delle critiche più famose, mentre ritengo che altre siano esagerate o in malafede. Non è mia intenzione cercare di convincervi che questi film siano perfetti o che siano – altra formula da bandire per legge – dei “capolavori incompresi”. Lo scopo di questo approfondimento è piuttosto quello di far capire per quale motivo i prequel siano da comprendere e apprezzare per quello che sono, anche alla luce di quello che è venuto dopo, con l’acquisto del franchise da parte di Disney.  

Prima di addentrarci insieme nel succo di questa analisi, occorre tenere in considerazione due premesse: la prima è di natura personale, poiché chi scrive è cresciuto sì con la trilogia originale di Star Wars, ma soprattutto con quella prequel, sviluppando nei suoi confronti un affetto difficilmente trascurabile. La seconda – che in un certo senso si collega alla prima – consiste nella progressiva e relativamente recente rivalutazione dei film, dovuta sia alla massiccia presenza online dei bambini che ci sono cresciuti insieme e ai quali questi lavori erano rivolti, sia al gargantuesco fenomeno di r/prequelmemes, una comunità di Reddit dedicata alla creazione di meme sui prequel che si è dimostrata fondamentale per la nascita di un rinnovato apprezzamento dei tanto criticati lavori di Lucas (basti pensare anche al recentissimo ritorno in sala, in  occasione del suo ventesimo anniversario, de La vendetta dei Sith, evento esclusivamente statunitense che, nel primo weekend, ha portato a un incasso di $25.5 milioni); senza contare, poi, che il trattamento della proprietà da parte della colossale multinazionale di Topolino ha convinto persino i più accaniti detrattori della trilogia ad ammettere, con un sospiro amaro, che “si stava meglio quando si stava peggio”. 

George Lucas: troppa libertà? 

Tutto si basa su dei retroscena che avevo scritto per spiegare cosa fossero i Jedi, i Sith, l’Impero, la  Repubblica e come tutto ciò si incastrasse. Ho dedicato molto tempo allo sviluppo di questi elementi, a ciò che ogni pianeta faceva e perché lo faceva in un certo modo. Quindi avevo tutto questo materiale. Molti degli elementi della storia erano già stati forniti.1 

Per raccontare la storia della trasformazione di Anakin Skywalker nel malvagio Darth Vader, il creatore della saga George Lucas, il quale in passato, pur ricoprendo un ruolo narrativo primario per tutta la trilogia originale, aveva diretto solo il primo Guerre stellari (Star Wars, 1977), prese in mano le redini dell’intero processo creativo, dirigendo2 e scrivendo da solo (fatta eccezione per L’attacco dei cloni, scritto a quattro mani insieme a Jonathan Hales) tutti i film. Egli seguiva direttamente e in prima persona ogni aspetto della realizzazione, esercitando spesso il proprio diritto di veto e imponendo la propria volontà senza pressoché alcun tipo di ingerenze da parte degli studios o di altre realtà. Questo ha portato molti a individuare – giustamente – in Lucas il principale “colpevole” dell’esito della trilogia; i detrattori dei prequel imputavano  all’un tempo riverito creatore della saga l’errore di essersi circondato di yes men, meri esecutori, quindi, della suprema volontà lucasiana. Inoltre, molteplici personalità dentro e fuori l’industria hollywoodiana presero il “fallimento” della trilogia come una sorta di monito contro la libertà assoluta del regista, a cui andrebbero invece posti dei controlli e dei contrappesi per garantire la qualità finale del prodotto artistico. Questa versione mi trova d’accordo solo per la metà che riguarda la ricostruzione “storica” degli eventi: sì, è effettivamente vero che il buon vecchio George era il sovrano indiscusso sul set, ma questa è cosa buona e sacrosanta. Spero che non mi si accusi di eccessiva ingenuità quando affermo che un artista debba avere  assoluta libertà creativa durante il processo di realizzazione della propria opera, senza preoccuparsi di ciò  che hanno da dire gli studios e senza avere come chiodo fisso la commerciabilità del proprio lavoro (problema che comunque, trattandosi di una saga sforna-giocattoli e universalmente amata quale Star Wars, non si sarebbe affatto posto). 

Lo stesso Lucas, figlio della New Hollywood, più di una volta ha espresso la propria frustrazione nei riguardi delle insopportabili intromissioni delle grandi case di produzione: ad esempio, in un’intervista con Charlie Rose del 15 dicembre 2015, il cineasta disse: “Nel mondo in cui viviamo – e nel sistema che ci siamo creati, in termini di grande industria – non si possono perdere soldi. Quindi il punto è che sei costretto a fare un certo tipo di film. E lo dicevo sempre alla gente, quando la Russia era l’URSS, e mi dicevano, ‘Ma non sei contento di essere in America?’ E io rispondevo, ‘Beh, conosco molti registi russi e hanno molta più libertà di me. Devono solo stare attenti a criticare il governo, poi possono fare quello che vogliono’”. Raggiunta l’autarchia finanziaria e senza preoccuparsi di perdite economiche, Lucas decise di completare la sua esalogia senza alcun tipo di freni; e personalmente, gliene sono molto grato, perché il cineasta californiano, pur con tutte le sue lacune e le sue limitazioni in quanto regista e sceneggiatore, è uno dei più grandi narratori e artisti degli ultimi cent’anni, una mente acuta e per certi versi geniale, ricca di immaginazione e piena di desiderio di sperimentazione e innovazione.  

Indipendentemente dal risultato effettivo dei film, che possono piacere o meno e la cui qualità – a differenza della trilogia originale – può essere oggetto di discussione, non si può non ammirare la perseveranza del disegno di Lucas, il quale aveva da anni in mente il proprio piano per raccontare la storia di Star Wars, la saga ormai per eccellenza del cinema nordamericano. Certo, le varie revisioni avrebbero prodotto diversi cambiamenti ai disegni originali (lo zio Owen doveva essere il fratello di Obi-Wan, Anakin doveva essere un po’ più vecchio, etc.), ma i punti principali sono rimasti invariati e costituiscono un ottimo ponte di  collegamento tra la prima trilogia e la seconda, oltre ad aumentare la già notevole profondità della storia e del personaggio di Anakin/Vader.

L’aver portato a termine un piano presente sin dagli anni Settanta e Ottanta è l’ennesima prova del fatto che la trilogia prequel sia stata un progetto di passione di Lucas, mosso sì dalla volontà popolare di veder proseguire (seppur a ritroso) la saga, ma spronato soprattutto dal desiderio di portare a conclusione la storia per cui verrà ricordato decenni dopo la sua dipartita. La sincera devozione che permea il progetto si nota anche nell’eterno desiderio del cineasta di innovare e sperimentare: i nuovi film della saga sono infatti pieni di pianeti, navi, veicoli, armi, alieni e culture del tutto inediti, che fungono sia da affascinante worldbuilding sia da elementi che contribuiscono ad arricchire la galassia lontana lontana,  rendendola più viva e incantevole che mai. L’effetto nostalgia può esserci, certo, ma non è mai al centro della narrazione – a differenza delle future evoluzioni disneyane. La sperimentazione tecnica, poi, è tra i fattori più importanti della trilogia.

Già forte della fama di grande rivoluzionario tecnologico grazie al suo lavoro con la trilogia originale3, Lucas aveva finalmente a disposizione i mezzi per materializzare appieno e in tutta la loro gloria le immagini della sua mente. In un’intervista del 1999, egli dichiarò: “Scrivere la sceneggiatura questa volta è stato molto più piacevole perché non ero vincolato da nulla. Non si può scrivere uno di questi film senza sapere come si intende realizzarlo. Con la computer grafica a mia disposizione, sapevo di poter fare quello che volevo”. Per quanto la CGI, come già menzionato, sia totalizzante e possa indubbiamente esser sfuggita di mano (ne La minaccia fantasma, per esempio, la scena iniziale del gas tossico è l’unica scena del film priva di alterazione digitale), il lavoro di effetti al computer funzionò da pietra miliare a livello  industriale, stabilendo standard e tecnologie poi adoperate da altri registi. Lo stesso odiato Jar Jar, primo personaggio realizzato interamente in computer grafica in un film live-action, contribuì a spianare la strada per altri personaggi simili ormai entrati nella storia, come Gollum de Il Signore degli Anelli (The Lord of the  Rings, 2001-2003) e Cesare de Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, 2011-in corso). 

Altro che eccesso di indipendenza, insomma; con tutti i suoi difetti e i suoi limiti, Lucas ha dato prova, per l’ennesima volta, che un artista va lasciato libero e con tutti i mezzi a disposizione per portare a pieno compimento la sua visione, indipendentemente dal parere degli studios e dal livello di gradimento del pubblico. Si tratta, ahimè, di una lezione che in molti ancora stentano ad apprendere – basti vedere  l’accoglienza riservata a Megalopolis (2024), grandiosa e tutto meno che ordinaria ultima fatica dell’amico e collega di Lucas, Francis Ford Coppola. 

La storia e i temi: come fa una brava persona a diventare un fascista 

In un tweet del 2020 pubblicato sul suo profilo, Rian Johnson – regista del controverso ma riuscito Star  Wars – Gli ultimi Jedi (Star Wars: The Last Jedi, 2017) – scrisse che George Lucas aveva “realizzato uno splendido film per bambini di sette ore su come la presunzione e la paura della perdita possano trasformare le brave persone in fascisti, e tutto questo rappresentando l’avanguardia per quasi tutti i grandi cambiamenti tecnici nel cinema moderno degli ultimi trent’anni”.  

È difficile dare torto a Johnson, il quale non solo conferma ciò che ci siamo detti finora riguardo ai meriti tecnici della trilogia, ma identifica anche uno dei temi principali di questi film. I prequel di Star Wars servono principalmente a due scopi: mostrare come Anakin Skywalker sia diventato Darth Vader e come la democratica Repubblica sia stata rovesciata dal malvagio e fascistico Impero Galattico. È interessante notare come queste due linee narrative procedano parallele e al contempo strettamente collegate per tutta la trilogia: nel primo capitolo, il giovane Anakin viene scoperto dai Jedi, che decidono con non poca riluttanza di addestrarlo, mentre l’ambizioso senatore Palpatine (il quale altri non è che Darth Sidious, Signore Oscuro dei Sith) sfrutta una crisi planetaria per diventare Cancelliere della Repubblica; nel secondo, Anakin avvia una relazione segreta con la senatrice Padmé e si allontana così sempre di più dall’ortodossia Jedi, mentre  Palpatine manovra la paura del Senato verso le minacce dei Separatisti e si fa attribuire poteri straordinari, trascinando la Repubblica nel conflitto intergalattico noto come la Guerra dei Cloni; nel terzo e ultimo capitolo, il disegno di Palpatine/Sidious giunge a un culmine trionfale quando questi riesce a manipolare gli incubi del giovane Skywalker, terrorizzato dall’idea di perdere la moglie, seducendolo con le promesse di potere del lato oscuro, trasformandolo nello spietato Darth Vader e usandolo per spazzare via i Jedi e la  Repubblica, costruendo sul sangue dei cavalieri caduti e sulle ceneri del vecchio Stato un tirannico e oppressivo Impero Galattico.  

Lucas riesce a intrecciare con maestria – seppur con qualche soluzione narrativa troppo sbrigativa e  perdendosi talvolta in certi dialoghi indubbiamente imbarazzanti – il personale (Anakin) con il politico (la  Repubblica), utilizzando come collante il machiavellico e mefistofelico Palpatine/Sidious; quest’ultimo, manipolatore astuto e privo di scrupoli, sfrutta a suo vantaggio uno dei sentimenti più potenti a livello individuale e collettivo: la paura. Che si tratti del timore da parte del Senato di non essere all’altezza delle minacce separatiste o di quello del giovane Skywalker di non essere abbastanza potente da proteggere le persone che ama, il Signore Oscuro riesce a destreggiarsi con impressionante abilità e a presentarsi da una parte come un uomo politico forte e apparentemente riluttante ad assumere poteri fuori dall’ordinario,  dall’altra come una benevola figura paterna che riesce a comprendere le frustrazioni e i sentimenti  contrastanti di Anakin e che sembrerebbe avere a cuore più di tutti il benessere del tormentato Cavaliere Jedi. Il patto faustiano che la Repubblica e Anakin stringeranno con il lupo travestito da agnello si dimostrerà catastroficamente fatale. Come ci ricorda il Maestro Yoda, d’altronde, “La paura conduce alla rabbia, la rabbia conduce all’odio, l’odio conduce alla sofferenza”. 

Attraverso l’evoluzione della figura di Palpatine – antagonista per eccellenza della saga e, secondo un’interpretazione per nulla esagerata, vero e proprio coprotagonista della trilogia prequel insieme ad Anakin – Lucas porta avanti un discorso di carattere politico a lui caro sin dagli albori della serie (e presente anche in pellicole come L’uomo che fuggì dal futuro [THX 1138, 1971]). La critica a un inefficace parlamentarismo  stantio e a una democrazia squallida e corrotta passa attraverso la rappresentazione di una Repubblica in mano a inetti burocrati e dominata da grandi corporazioni e gruppi d’interesse; non è più la voce del cittadino comune a farsi sentire nelle mastodontiche aule del Senato galattico, bensì quella infida delle banche, dei funzionari comprati, dei grandi conglomerati commerciali, dei fabbricanti d’armi. Un ambiente così traviato  non può che accogliere a braccia aperte e “sotto scroscianti applausi” un tiranno che promette stabilità e prosperità. La dittatura non nasce (solo) a colpi di spade laser o con la sottomissione forzata: sono le istituzioni democratiche a consegnarsi all’uomo forte, colui che è in grado di garantire ordine e sicurezza concentrando su di sé un potere assoluto. I modelli del mondo reale presi di mira dal regista di Modesto sono evidenti: come dichiarato da Lucas stesso, Palpatine è un miscuglio malsano tra Bush Jr. e Nixon, visti  come simbolo esplicito della più abietta corruzione e malvagità. D’altronde, già la trilogia originale, a suo tempo, avanzava una forte critica nei confronti della guerra statunitense in Vietnam, accostando esteticamente (e forse anche ideologicamente) certe frange dell’amministrazione americana ai gerarchi  nazisti; nei prequel, i rimandi storici sono rimasti pressoché invariati, con il Vietnam che viene sostituito – soprattutto, alla fine del secondo capitolo, con la battaglia di Geonosis che dà il via alla Guerra dei Cloni – da una chiara allegoria dell’Iraq e il drammatico Ordine 66 rappresentato sulla falsariga della notte dei lunghi  coltelli. Gli amanti della storia classica, poi, non potranno non notare certi parallelismi tra gli eventi politici dei prequel e la fine della Res Publica Romana

La forte critica sociale di Lucas, come anticipato, si intreccia più volte con un buon lavoro sui personaggi: fra i nuovi, Mace Windu rappresenta tutta la miope testardaggine di un Ordine Jedi ormai troppo invischiato nella politica repubblicana e allontanatosi irrimediabilmente dalla Forza, mentre Qui-Gon Jinn, che individua in Anakin la figura profetica del Prescelto, riesce a vedere oltre l’ostinato dogmatismo del Consiglio4; la regina e in seguito senatrice Padmé Amidala, poi, brilla di forza e determinazione tali da  guadagnarsi il titolo di madre della principessa Leia – seppur nel terzo capitolo, complice anche la scelta di  tagliare le scene in cui affronta lo strapotere raccolto da Palpatine, la nostra rimanga confinata a oggetto della  distruttiva passione di Anakin.

Impossibile non lodare gli antagonisti, ognuno dei quali rappresenta un tratto della futura personalità di Vader: il feroce Darth Maul è un guerriero consumato dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, l’elegante conte Dooku è un Jedi caduto nelle braccia del lato oscuro, mentre il crudele generale Grievous è un cyborg con non pochi problemi respiratori. I personaggi storici, infine, non mancano di un notevole approfondimento: da una parte, Yoda si rende conto troppo tardi di quanto i Jedi si siano allontanati dalla loro via, perseguendo obiettivi sempre più materiali e diventando più simili a soldati con un’agenda politica che a guardiani della pace e della giustizia; dall’altra, Obi-Wan Kenobi diventa quasi il pezzo forte  della trilogia, complice un’ottima interpretazione da parte di Ewan McGregor, il quale conferisce al personaggio di guinnessiana memoria una dose inedita e toccante di umorismo, determinazione, umanità e tristezza, rispettando e ampliando il lavoro avviato da Sir Alec Guinness. 
E poi c’è Anakin Skywalker

Occorre partire da una frase di George Lucas:  

I bambini ti insegnano la compassione, ad amare incondizionatamente. Anakin non può essere redento per tutto il dolore e la sofferenza che ha causato. Non ripara i torti, ma ferma l’orrore. Semplicemente, alla fine della saga Anakin dice: “Tengo a questa persona, indipendentemente da cosa questo significhi per me. Butterò via tutto ciò che ho, tutto ciò che ho imparato ad amare – principalmente l’Imperatore – e butterò la mia vita per salvare [Luke]. E lo faccio perché ha fiducia in me, mi ama nonostante tutte le cose orribili che ho fatto […].” La profezia aveva ragione. Anakin era il Prescelto e riporta l’equilibrio nella Forza.5

Come è giusto che sia, è il futuro Darth Vader a dominare la scena: Lucas ci porta dietro la maschera del Signore Oscuro, mostrandoci dapprima un bambino leale e altruista vittima di terribili circostanze, poi un giovane preda di disordini sentimentali e incapace di abbandonare la profonda dedizione ai suoi cari e, nella tragica conclusione della trilogia, un eroe di guerra incompreso e spaventato che stringe un patto con il demonio e che finisce per perdere ogni cosa, fatta eccezione per l’oscurità che lo anima. La tragedia di Anakin Skywalker mostra come l’avidità, la sete di potere, l’egoismo, l’essere dominati dalle proprie passioni, l’attaccamento (auto)distruttivo e l’incapacità di adattarsi al cambiamento naturale delle cose possano condurre anche il migliore tra di noi su un cammino di morte, violenza e oscurità. Anakin passerà tutta la sua vita da schiavo: dalla schiavitù su Tatooine passerà al servizio nell’Ordine Jedi, percepito come  un peso in quanto gli viene impedito di essere padrone del proprio destino, per poi cadere nella schiavitù senza fondo delle proprie emozioni, quella rappresentata dall’Imperatore e dal lato oscuro; si tratta del “cammino facile” di cui parlava Yoda nella trilogia originale, ovvero quello che ti promette gloria e potere al prezzo della tua anima e della tua integrità. Sono l’immediata semplicità e l’apparente razionalità delle decisioni spinte da paura e rabbia che portano persone buone e oneste a diventare – per dirla con Rian Johnson – dei fascisti. Alla fine, come sappiamo, sarà l’amore incondizionato e disinteressato, quello di Luke Skywalker nei confronti del padre, a liberare Anakin dalle sue catene e a consentirgli di portare a termine il suo destino, realizzando la profezia, ponendo fine all’orrore di cui lui stesso era perpetratore e acquisendo, finalmente, la libertà. La già meravigliosa vicenda della trilogia originale, insomma, acquisisce ancora  maggiore potenza, intensità e significato. E non è forse questo il compito di un buon prequel?  

Cosa è rimasto oggi dei prequel? 

Dopo una damnatio memoriae dapprima popolare e imposta dai puristi della saga, poi istituzionale da parte del nuovo padrone disneyano, sempre attento a seguire pedissequamente i gusti dominanti per trarne il maggior profitto possibile, da qualche anno la trilogia prequel è tornata alla ribalta, guadagnandosi lo status di serie cult e un rinnovato affetto da parte del fandom.

I motivi sono diversi e al contempo intrecciati tra loro: come si è detto, la progressivamente corposa presenza online dei fanciulli cresciuti con la nuova trilogia ha convinto buona parte dell’internet del fatto che i film di Lucas fossero stati fraintesi e ingiustamente affossati, complice anche l’importante dose di meme con protagonisti personaggi e scene di  prequeliana natura. Un ruolo importante è stato giocato anche dalla serie animata di altalenante ma indubbia qualità The Clone Wars (2008-2020), della quale Lucas è stato creatore e produttore esecutivo, un prodotto che si piazza cronologicamente tra il secondo e il terzo episodio al fine di mostrare gli episodi salienti del conflitto galattico e, soprattutto, di colmare le lacune narrative della trilogia: la lenta discesa di Anakin verso il lato oscuro e la sua graduale perdita di fiducia nei confronti dei Jedi vengono approfondite, i soldati cloni vengono umanizzati e arricchiti di varie personalità, le problematiche di natura politica vengono esplorate  ulteriormente; da non trascurare poi l’aggiunta di nuovi e memorabili personaggi ormai parte importante del canone starwarsiano – su tutti l’apprendista di Anakin Ahsoka Tano, il capitano clone Rex, il cacciatore di taglie Cad Bane e la guerriera mandaloriana Bo-Katan – e il ritorno dalla morte di Darth Maul, antagonista sbrigativamente liquidato da Lucas ne La minaccia fantasma. The Clone Wars, insomma, non solo tappa le falle dei prequel e riempie il triennale vuoto tra un film e l’altro, ma diventa anche fonte di affascinanti storie che vivono ormai di vita propria e parallela rispetto ai principali avvenimenti della saga – ai quali, comunque, sono spesso collegate. 

A partire dal 2012, con la vendita di Lucasfilm alla tentacolare Walt Disney Company, le cose cambiarono in peggio. A capo del franchise non c’era più un creatore imperfetto dotato di un piano chiaro e forte di invidiabili sensibilità artistiche, ma dei dirigenti d’azienda interessati a spremere fino al midollo una proprietà per ricavarne una quantità abnorme di denaro. È da queste intenzioni che nasce la trilogia sequel, dove – di nuovo, indipendentemente dal livello di gradimento personale – la totale assenza di pianificazione, struttura e innovazione si fa clamorosamente sentire (per due film su tre, almeno); le storie e i temi trattati ricalcano in maniera piatta e pedestre quelli della trilogia originale, il design di astronavi e pianeti è perlopiù  scialbo e privo di ispirazione, la nostalgia e il fan service dominano su qualsiasi altro aspetto. L’azienda del topastro non era affatto animata dal bruciante desiderio di un’artista di raccontare, bensì dall’impellente necessità di rifarsi da un acquisto multimiliardario. La missione, in quel senso, è stata compiuta, in quanto i film e le serie televisive prodotte dalla multinazionale hanno incassato miliardi su miliardi e hanno attirato milioni di abbonati alla piattaforma di streaming Disney+. La stessa brama di soldi ha condotto l’azienda ad assecondare i fan dei prequel, ormai una maggioranza non più trascurabile, anche alla luce della tiepida – quando non furiosa – accoglienza riservata ai sequel: e quindi ecco che The Clone Wars, bruscamente interrotta nel 2014, viene portata a termine con un’ultima stagione, il paladino del popolo Ewan McGregor viene ripescato per una (insoddisfacente e mediocre, ahimè) miniserie e alla nostalgica Ahsoka viene  consentito di fare il salto dall’animazione al live-action, mentre nuove serie TV come The Mandalorian (Jon Favreau, 2019-2023) e, soprattutto, The Acolyte – La seguace (The Acolyte, Leslye Headland, 2024) ricalcano sempre di più estetica e linee narrative dei prequel.  

Pare chiaro, dunque, che lo stato dell’arte di Star Wars, malgrado la quantità notevole di prodotti sfornati, sia quello di un marchio in grave crisi creativa e dalla qualità sempre più scadente, favoreggiata anche dall’omologazione sempre più evidente della saga al modello produttivo del Marvel Cinematic Universe (ma questo è un approfondimento che, forse, si farà un’altra volta). A sciocchi appassionati come il sottoscritto manca terribilmente l’ingenua e imperfetta artisticità del periodo lucasiano, la sua infantile maturità, il suo sguardo profondamente e inequivocabilmente personale sul mondo e sulla vita – in una parola, la presenza di un vero artista. 

Con ciò non intendo affossare in toto il periodo disneyano: prodotti come Rogue One: A Star Wars Story (Gareth Edwards, 2016), l’ultima stagione di The Clone Wars, buona parte di Rebels (Simon Kinberg, Dave Filoni, Carrie Beck, 2014-2018) e The Bad Batch (Dave Filoni, 2021-2024), la prima stagione di The Mandalorian e, perla più unica che rara, l’incredibile Andor (Tony Gilroy, 2022-2025) lasciano intravedere una flebile speranza di ripresa. Eppure, riguardando ciò che è stato Star Wars vent’anni fa, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che qualcosa di puro e autentico sia stato perso per sempre. 


1Intervista a George Lucas, StarWars.com, 2019 
2 Va però ricordato che Lucas aveva inizialmente chiesto a Ron Howard, Robert Zemeckis e Steven Spielberg di dirigere La minaccia fantasma al suo posto; tutti e tre rifiutarono, sia perché intimoriti dal progetto sia perché erano convinti che  Lucas stesso dovesse dirigere il suo film.
3 Lucas fu infatti fondatore, nel 1975, della Industrial Light & Magic (ILM), rivoluzionaria divisione della Lucasfilm  responsabile degli effetti speciali di tutti i film di Star Wars.
4 Non è un caso che sarà lui a scoprire il segreto per mantenere intatto lo spirito di un Jedi dopo la morte del corpo.
5 George Lucas, citato dal libro di Jonathan W. Rinzler The Making of Star Wars: Revenge of the Sith.

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