N5 2025

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA 

Di Giovanni “Fusco” Pinotti 

In tutto il mondo capitalistico la libertà di stampa è la libertà di comprare i giornali, di comprare gli scrittori, di corrompere, di comprare e di fabbricare “l’opinione pubblica” a favore della borghesia. 
Vladimir Lenin, lettera a Gavril Miasnikov, 5 agosto 1921. 

Definire Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio un film “sul giornalismo” può apparire un’operazione corretta, ma essa rivela in realtà una limitazione angusta e fondamentalmente inesatta del messaggio e della realtà della pellicola, in quanto quest’ultima si fa carico – impresa mirabile considerata la durata di poco più di un’ora e venti – di intenzioni ben più onnicomprensive e di aspirazioni nient’affatto limitate al determinato genere evocato dalla formula di “film giornalistico”. L’opera, infatti, mostra con spietato realismo un’intera società della quale il mondo della stampa rappresentato altro non è che la sua naturale estensione, il suo fido braccio destro, il servile esecutore di volontà propagandistiche. 

Procediamo con ordine, partendo dalla trama. A Milano, nel bel mezzo degli anni di piombo, Bizanti (uno straordinario e canuto Gian Maria Volonté) è il capo redattore de Il Giornale, un quotidiano di destra – finanziato dallo straricco industriale ingegner Montelli (John Steiner) – noto per soddisfare le esigenze e gli obiettivi politici degli ambienti più reazionari, conservatori e bigotti della società italiana. Quando una giovane liceale (la futura giornalista Silvia Kramar1) viene violentata e uccisa, Bizanti e i suoi sfruttano il caso per fare di un giovane studente militante un “mostro” da gettare in pasto all’opinione pubblica e per screditare le formazioni politiche più progressiste e rivoluzionarie, anche e soprattutto in vista delle imminenti elezioni politiche. 

Sbatti il mostro sembra quasi più un film sulla rabbia, a dire il vero: da una parte, quella inevitabile che sorge nel cuore di ogni spettatore (o così mi auguro, almeno) di fronte alla messa a nudo di un sistema marcio e degli squallidi personaggi che lo abitano e lo alimentano; dall’altra, quella onnipresente e istigata da un organo che dovrebbe mettersi al servizio del popolo e della democrazia e che diventa invece galoppino dell’autentico potere, quello nascosto tra le ombre. Eppure, è proprio della parola “democrazia”, chiamata in causa come netto discrimine tra la società civile e gli estremisti, che si riempiono la bocca i leader del Giornale: “La violenza si batte con la democrazia”, recita un poster nella sede del quotidiano; e poi, “Persino le squadracce di Mussolini e Farinacci esitarono” ad attaccare “uno dei supremi valori della civiltà occidentale: la libertà di stampa”, detta il direttore (Jean Rougeul) in seguito al lancio di alcune molotov contro la sede della redazione. Come appare evidente, è chiaro che la “democrazia” a cui fanno proditoriamente riferimento questi servi altro non sia che quella – per dirla con Luciano Canfora – “dei signori”, della proprietà, dei grandi gruppi finanziari e industriali, uno status quo che lega il mondo della stampa a quello della polizia, difesa anche quando non se lo merita. Il quotidiano diretto dal personaggio di Volonté diventa quindi parte attiva e consapevole di una grande e invisibile operazione di propaganda, che vede nelle idee di Goebbels un efficiente manuale d’istruzioni e fa dell’antifascismo (a vaghe parole, dato che l’ingegner Montelli finanzia gruppi fascisti) unito all’anticomunismo la propria stella polare. 

Il Giornale 2 non sarebbe così efficiente e universalmente diffuso se non fosse per il suo capace e implacabile caporedattore, Bizanti. Volonté (come al solito) riesce a dare vita a un antagonista-protagonista dalla fine intelligenza, un individuo privo di scrupoli che vive tanto della magistrale interpretazione di chi gli presta il corpo quanto della scrittura impeccabile di Sergio Donati e Goffredo Fofi. Ciò che forse colpisce di più di  Bizanti, oltre agli atteggiamenti manipolatori e alla sua glaciale amoralità, è la coerenza: da uomo avveduto e disilluso qual è, egli si rende pienamente conto della sua posizione, del suo ruolo di propagandista fantasma; a differenza di altri suoi colleghi ingenui o ipocriti, tuttavia, non cerca né di fingersi paladino degli oppressi, simulando un’innocua presa di posizione contro i suoi veri padroni e finanziatori, né tantomeno di celare agli occhi dell’opinione pubblica quello che ormai è un segreto di Pulcinella. Bizanti si vede come un fiero e consapevole combattente in prima linea di una lotta di classe che, come sottolinea, non è stata inventata da  Marx e Lenin, ma che viene condotta anche dalla categoria degli oppressori.

L’idea di costruire un Mostro a scopi politici, così come quella di sfruttare l’aggressione alla sede del quotidiano per dipingersi come vittime innocenti di un terrorismo spregiudicato (geniale, in questo contesto, la scena in cui Volonté aspetta che vengano scattate foto ad hoc prima di soffocare l’incendio, in una perversa scala di priorità che ci dice già tutto ciò che ci occorre per conoscere il personaggio), è sì approvata da Montelli, il quale, oltre ai contenuti presentati, ha il potere dell’ultima parola anche per quanto riguarda l’impaginazione, ma parte dalla mente  contorta e brillante di Bizanti, guerriero spietato in questa crociata dell’informazione – o, per meglio dire, della creazione dell’opinione pubblica.

Egli non riesce a comprendere né l’idiozia di sua moglie (Carla Tatò), che invece di prendere parte insieme al marito a questo gioco di potere si atteggia piuttosto come il lettore medio del Giornale, credendo a tutte le panzane e mezze verità da questo pubblicate, né l’idealismo dei giovani studenti rivoluzionari e del nuovo arrivato in redazione, Roveda (Fabio Garriba). È proprio quest’ultimo, un inesperto giovane di centro-destra privo di malizia, a rendersi conto della macabra, grottesca e corrotta realtà dell’informazione borghese. La sua prima lezione comincia con l’apprendere un nuovo linguaggio, adatto al tipico lettore del giornale, il quale, a detta di Bizanti, è un uomo tranquillo, onesto, un lavoratore che produce reddito, amante dell’ordine e che è stanco delle continue tensioni nel paese – poco importa che tra i lettori più fedeli si annidi anche il vero assassino della giovane Maria Grazia, un bidello frustrato e pedofilo ossessionato dalla ragazzina, da egli equiparata alla Santa Vergine; ebbene, è questo lettore, obiettivo della propaganda padronale, che va confortato e coccolato, e così  l’aggressivo e colpevolizzante titolo “Disperato gesto di un disoccupato, si brucia vivo padre di cinque figli”, carico di significati politici, diventa il ben più innocuo “Drammatico suicidio di un immigrato3”, che da  “licenziato” passa ad essere “rimasto senza lavoro”. Il nuovo linguaggio ha costruito una versione più comoda e meno polemica della realtà. Affidato alla copertura del caso Maria Grazia, Roveda assiste basito  alla sfrenata spregiudicatezza di Bizanti e gli rinfaccia la sua disonestà, promettendo di denunciarlo  all’Ordine dei giornalisti; il caporedattore, che disprezza la puerile concezione del giornalista come mero osservatore imparziale, non può che lasciarsi andare a un sardonico commento: “È un perfetto idiota. Ci ritroveremo tutti nel suo primo libro”. 

Oggi il clima politico italiano è cambiato: non ci sono più anarchici e rivoluzionari che agitano bandiere rosse per le strade e tirano molotov inneggiando a Mao, l’opposizione di centro è sterile e controllata e l’equiparazione astorica e malsana tra fascismo e comunismo è diventata buonsenso condiviso da ogni parte. Eppure, i problemi strutturali individuati dal portentoso lavoro di Bellocchio sono rimasti al loro posto, financo a rafforzarsi ancora di più. La costruzione di mostri portata avanti grazie alla disonestà e al servilismo dei principali organi di stampa, coadiuvati in questo senso anche dai social, dove l’italiano medio benpensante è sempre alla ricerca di qualcuno da demolire e sbranare, è un tumore che cela le reali contraddizioni del paese e minaccia di ammorbare in misura ancora maggiore la coscienza delle persone. Sta a noi, ingenui e stupidi come Roveda, cercare di cambiare in meglio le cose e riportare dignità e autentica concretezza alla tanto evocata e costantemente calpestata libertà di stampa. 


1 Non è l’unica (futura) personalità di spicco; a fomentare le masse della Maggioranza silenziosa a inizio film è il fascista Ignazio La Russa, attuale presidente del Senato.  

2 Non c’è relazione tra il giornale di Bizanti e l’omonimo e compaesano quotidiano fondato nel 1974, due anni dopo l’uscita del film di Bellocchio. 

3 Così definito da Bizanti in quanto il defunto era un calabrese.

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