DROP
Di Miriam Padovan
C’è un momento, durante la visione di Drop (2025), in cui si capisce che il film non prenderà mai davvero il volo. Anzi, più che un decollo, si ha l’impressione di assistere a una lunga, lenta discesa: un “drop”, appunto, ma non di quelli adrenalinici. Qui si precipita direttamente nella noia tiepida, quella che ti lascia la bocca amara appena usciti dalla sala.

Christopher Landon, simpatico mestierante di horror pop che conosciamo e amiamo anche un po’, questa volta si presenta al banco dei registi con una mezza idea. La storia, in teoria, prometteva: una madre vedova, un primo appuntamento in un ristorante chic, messaggi minatori, minacce familiari, tensione crescente… In pratica, però, l’unica cosa che cresce è il nostro desiderio che Violet si sbrighi a fare qualsiasi cosa debba fare, purché la smetta di trattare di merda quel bono che si trova davanti.

La location è uno dei pochi assi nella manica: un ristorante grattacielo che dovrebbe essere claustrofobico e sinistro e che invece sembra il set di uno spot pubblicitario un po’ demodé. Landon si arrabatta, cerca di spremere atmosfera da ogni angolo, ma il risultato è lo stesso di un’aspirapolvere: un gran rumore di fondo e poca sostanza. Non aiuta l’idea di piazzare fastidiosi occhi di bue sugli attori per “guidare” lo spettatore, perché non si sa mai che qualcuno possa distrarsi a guardare il soffitto (comprensibilmente). Certo, ogni tanto qualcosa funziona. Alcuni momenti di suspense vecchia scuola, la presenza dignitosa di Meghann Fahy nei panni di Violet (che ce la mette tutta, poverina), qualche intuizione sull’uso distorto della tecnologia e dei social. Ma purtroppo si mostrano appena prima di dissolversi nell’indifferenza generale. Drop parte con la pretesa di essere un “thriller da camera” aggiornato ai tempi del web 2.0, ma alla fine si impantana nel più stanco degli home invasion da discount. Invece di rilanciare il gioco, Landon si aggrappa disperatamente a tutto quello che conosce meglio – citazionismo spicciolo, slasherino dell’ultima ora – come uno studente impreparato durante un’interrogazione.

E pensare che con un po’ più di coraggio si sarebbe potuto giocare davvero. Il film invece si inchioda a ogni scelta ovvia, a ogni cliché da manuale: il passato traumatico di Violet, il villain che messaggia peggio di un adolescente in brain rot, le svolte telefonate con la stessa suspense di una puntata di Don Matteo. In poche parole: niente che non si sia già visto, e pure meglio, in decine di altri thriller. Se il paragone con il venerabile Minuti contati (Nick of Time, John Badham, 1995) poteva far sperare in un racconto asciutto e incalzante, il risultato è invece più vicino a una brutta copia di Scream, senza il minimo brio meta o ironia consapevole.
Anche il tentativo di affrontare temi più seri – come la violenza domestica – viene relegato a due flashback buttati lì tanto per dire, “Ehi, c’è della profondità!”. E come tutti i viaggi mediocri, si conclude con un atterraggio prevedibile e un’ovazione di sollievo (nostra, non dei personaggi).


È l’ennesimo esempio del cinema-meccanismo che, in mancanza di un’anima, tira avanti grazie a piloti automatici della tensione. Funziona abbastanza da riempire un’ora e quaranta di popcorn distratti, ma non abbastanza da lasciare alcun segno. Drop è il perfetto passatempo da sabato sera in cui si è troppo stanchi per cambiare canale: un film che si lascia guardare, certo, ma solo se si è disposti a dimenticarlo il minuto stesso in cui partono i titoli di coda. E solo perché, in fondo, chi si accontenta gode (tranne me, evidentemente).
Lascia un commento