N5 2025

THUNDERBOLTS*

Di Gianluca Meotti  

Perché affidare le sorti del franchise cinematografico più grande degli ultimi anni ad un manipolo di eroi brutti, sporchi e menefreghisti? Ma perché no? Dopo la decisione di concentrarsi di più sui singoli prodotti, seguita ad anni di sovrapproduzione mediale, ogni nuovo prodotto viene atteso dal pubblico al varco con i fucili spianati, sperando sia il Santo Graal salvifico per le sorti dell’universo creato da Kevin Feige o la definitiva pietra tombale su un progetto cinematografico iniziato quasi venti anni fa. Ma dopo la “X” rossa con cui è stato bollato Captain America: Brave New World (Julius Onah, 2025), la Marvel prova a riconquistare il suo  pubblico con una classe operaia che sta fra inferno e purgatorio, un gruppo mal assortito di personaggi secondari e terziari che si ritroverà forzatamente insieme sullo schermo. Malgrado le premesse possano sembrare tutto fuorché allettanti, Thunderbolts* (Jake Schreier, l’asterisco è fondamentale) dà l’illusione di essere tornati indietro di qualche anno, quando un altro cinema blockbuster era possibile e diffuso. 

Aver fatto pace con la morte della sorellastra non sembra aver offerto a Yelena (Florence Pugh) alcun tipo di conforto profondo, in quanto il vuoto che prova dentro di lei continua ad essere vastissimo e nessuna delle missioni super segretissime per Valentina Allegra de Fontaine (Julia Louis-Dreyfus) sembra in grado di colmarlo.

Quando la direttrice della CIA le assegna l’ennesima missione, Yelena accetta, a patto però che questa sia l’ultima volta come agente operativa sul campo. L’incarico sembra essere semplicissimo: cinque piani sottoterra si trovano dei documenti che un agente corrotto vuole rubare, e la Vedova Nera deve eliminare la talpa. Semplicissimo, appunto. Se non fosse che altri tre agenti sono stati mandati sul posto con la stessa missione, ma con obbiettivi diversi, sempre dalla direttricissima; gli altri sono John Walker/U.S. Agent (Wyatt Russell), Ava Starr/Ghost (Hannah John-Kamen) e Antonia Dreykov/Taskmaster (Olga Kurylenko). Yelena deve uccidere Ava, che deve uccidere Antonia, che deve uccidere John Walker, che deve uccidere Yelena; in tutto ciò, quasi dal nulla, appare Bob (Lewis Pullman), un civile che non sa perché si trova lì.

Appianate le divergenze, il “gruppo” decide di fare fronte comune ed unirsi contro Valentina, aiutati anche da Alexei Shostakov/Red Guardian (David Harbour) e dal neoeletto senatore Bucky Barnes (Sebastian Stan). La squadra però si scontrerà con l’arma segreta di Valentina, un essere più forte di tutti gli Avengers messi insieme, vecchi e nuovi, che proteggerà la terra da qualsiasi minaccia: Sentry, il Bob di prima.

La Marvel non è nuova ad espiantare un/una regista dal mondo dell’indie per metterlo/a sul palcoscenico più grande del mondo, anche se con risultati alterni. Senza tornare indietro di quasi dieci anni con Taika Waititi per Thor: Ragnarok (2017), basta pensare a quando la regia di Eternals (2021) fu affidata a Chloé Zhao, o ai film su Black Panther di Ryan Coogler, o ancora a Destin Daniel Cretton (regista nel 2013 di Short Term 12) per Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings, 2021). Questa tendenza continua anche in Thunderbolts*: Jack Schreier è una delle menti dietro a Lo scontro (Beef, Lee Sung Jin, 2023-in corso), serie Netflix uscita un paio d’anni fa, e porta nel film una voglia di andare a scavare nella psiche dei personaggi di cui si è sentita veramente la mancanza negli ultimi anni. Schreier riesce a ristabilire l’elemento fondamentale per un qualsiasi grande franchise che voglia avere una vita lunga, ovvero l’empatia con il pubblico. Compito che assume ancora un altro strato di difficoltà se si pensa al materiale di partenza:  degli “eroi” che hanno avuto pochissimo spazio all’interno di film marginali in passato, ma ai quali qui viene  richiesto di prendersi la scena. Più che le – tutto sommato non impressionanti – scene d’azione (spicca quella dei combattimenti incrociati) o la struttura dell’intreccio che va a finire sul politico (secondo film Marvel di fila in cui il potere statale e la sua stabilità vengono messe in dubbio), ciò su cui più di tutto si vuole far concentrare lo spettatore, forse con troppa insistenza, è come i protagonisti, due in particolare, affrontino la loro condizione problematica. Uno scandaglio psicologico che, per ovvi motivi, non può subire problematizzazioni eccessive, ma che sa dove andare a parare senza troppi problemi. 

Visivamente, il film risulta molto più curato rispetto alla media recente dei suoi compari, grazie alla fotografia di Andrew Droz Palermo (già DoP per David Lowery in Sir Gawain e il Cavaliere Verde [The Green Knight, 2021] e Storia di un fantasma [A Ghost Story, 2017]) che desatura tutto, rendendo l’immagine molto più scura e priva di bulimie visive. Il risultato eccede le (poche) aspettative di partenza, restituendo un film che sa di vecchia Marvel, capace di essere godibile anche con i costanti tentativi di risultare ad ogni costo simpatico. 

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