N5 2025

JULIEN DONKEY-BOY

Di Gianluca Meotti 

Detentore del riconoscimento di primo film nato fuori dall’Europa ad essere riconosciuto degno delle pratiche del Dogma 95, Julien Donkey-Boy è il ritorno dietro la macchina da presa per Harmony Korine che, dopo l’esordio con Gummo (1997), ripropone nuovamente una storia fatta di vignette, ma questa volta avviluppate attorno una famiglia disfunzionale. Pur infrangendo alcuni principi del Dogma (l’uso di musica extra-diegetica, riprese fatte con camera fissa e non a mano), l’opera seconda di Korine imprigiona lo spirito del gruppo danese e lo restituisce declinato nei suoi contesti di quartieri fatiscenti e individui instabili.

Portatore di una schizofrenia non diagnosticata, Julien (Ewen Bremner), vive nel suo mondo, alternando il suo lavoro in una comunità per non vedenti con monologhi sconclusionati sulla religione. Orfano di madre da quando è piccolo, divide la sua casa nei sobborghi di New York con un padre laconico e livoroso (Werner Herzog), la dolce sorella incinta Pearl (Chloë Sevigny) e il fratello aspirante wrestler Chris (Evan Neumann). Questa è tutta la sua vita, un girotondo di luoghi e persone sempre uguali con cui Julien si confronta e si scontra. 

Korine riprende l’impostazione narrativa spezzettata di Gummo centrandola su un unico nucleo famigliare, approfondendo il discorso su quella parte d’America laterale che fa affiorare le proprie storture nella psiche e nel corpo di chi la abita; discorso che giungerà alle estreme conseguenze stilistiche e linguistiche qualche anno dopo, con la realizzazione di Trash Humpers (2009). Ma se in Gummo l’utopia anarchica di una società paritaria era data dalla totale assenza di figure autoritarie adulte, qui è proprio il conflitto fra il padre e la prole ad innescare, nei figli, quei turbamenti psicologici che condizionano la loro vita. Emigrato tedesco, verosimilmente in cerca di fortuna, il padre rievoca lo spirito colonizzatore dei suoi avi nel salotto di casa, rovesciando sui figli l’insoddisfazione per quel sogno americano che si capisce essergli sfuggito dalle mani e per la sua condizione di celibe forzato. Korine utilizza Herzog come marionetta di un teatro gotico nelle  sequenze in cui quest’ultimo si trova solo nella sua stanza, trangugiando uno sciroppo da una scarpa o indossando una maschera antigas senza evidente necessità. È un corpo a corpo intellettuale che il giovane regista instaura con il maestro tedesco, anche lui giunto in America ad un certo punto della sua carriera. È un modo per Korine di spogliare il cinema di ciò che è stato e dei suoi miti, e di farlo inimicandosi pubblico e critica (il film fu distribuito pochissimo e i critici lo considerarono un’appendice malata di Gummo) per aver  cancellato quella che per più di un secolo era stata considerata la linea di ciò che era decente mostrare. 

Nelle vite di questa famiglia c’è troppo presente e forse poco futuro. Ingabbiato in un’esistenza ciclica, Julien guarda il mondo galleggiando da fuori campo in attesa di nulla e inconsapevole della sua condizione peculiare. Condizione di cui quasi nessuno sembra accorgersi, declinandola a comportamenti infantili figli del trauma della perdita della madre. Ed è qui che il più tetro e ingenuo anti-umanesimo di Korine viene fuori; il disagio  sgorga dal suolo come se infestasse tutto ciò che circonda i protagonisti e le periferie placide e cordiali su cui si è basato tanto cinema americano diventano coacervo di indifferenza, anche fra coloro che stanno sotto lo stesso tetto.

La scelta stessa di girare tutto il materiale in MiniDV, per poi tramutarlo prima in 16mm e poi in 35mm, conferisce al prodotto finale una resa visiva che è assolutamente respingente nel suo essere granulosa e quasi tendente alla miopia. In questo sforzo, anche un po’ naif, di distruggere tutto ciò che si pensava si potesse dire con il linguaggio cinematografico, risiede tutta la poetica del suo regista, dal suo esordio fino all’ultimo Baby Invasion (2024), e che fa di Julien Donkey-Boy uno dei suoi lavori più riusciti. 

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