QUEER
Di Gianluca Meotti

In Querelle de Brest (Querelle, 1982), Rainer Werner Fassbinder inserisce una citazione dalla prima parte del verso finale de La ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Gaol, 1898) di Oscar Wilde. “Ogni uomo uccide ciò che ama”; parole che sposano il languido, melanconico e ultimo melodramma dell’autore tedesco. Parole che però possono essere altresì accostate al nuovo film di Luca Guadagnino, in senso ancora più letterale rispetto all’opera fassbinderiana, e che condensano l’essenza di una storia, e della storia del suo autore originale, in immagini parlanti.
L’adattamento di Queer è una chimera che Guadagnino insegue da tempo, da quando, a diciassette anni, scoprì il libro di William S. Burroughs (1985, edito in Italia con il titolo di Checca o Diverso) e ne rimase così colpito da decidere che quel manoscritto sarebbe diventato un suo film. Ma le questioni di diritti sono più forti di ogni volontà, e solo dopo la fine delle riprese di Challengers (2024) il regista siciliano è riuscito ad accaparrarsi la possibilità di portare a termine un progetto che inseguiva da più di trent’anni. Lo ha fatto non perdendo mai di vista la fonte di partenza, e a questa sommandovi lateralmente gli elementi della vita e del processo creativo di Burroughs, ma guardando sempre ai suoi maestri, Fassbinder e Cronenberg su tutti.
William Lee (Daniel Craig) è un espatriato americano a Città del Messico. Problemi di uso e spaccio di droghe l’hanno costretto a lasciare il suo paese natale e a rifugiarsi in un coacervo di bar, sguardi languidi e ancora più droghe. In una delle sue giornate incrocia lo sguardo con il giovane Eugene Allerton (Drew Starkey) e ne diventa subito ossessionato.
L’attrazione di Lee è così forte da renderlo cieco ai comportamenti noncuranti e sprezzanti del suo amante, fintanto che arriva ad offrirgli un viaggio in Sud America nel quale dovranno andare in cerca dello yage, una radice con poteri lisergici che favorirebbe la telepatia fra individui. Parlare senza dire una parola. L’amato accetta, ma sarà proprio questo viaggio a sgretolare il loro già fragile, e opportunistico, rapporto.
Così come era successo nel 1991 a David Cronenberg quando si ritrovò ad adattare Il pasto nudo (Naked Lunch), Guadagnino tratta la materia burroughsiana facendo dialogare la vita dell’autore con il contenuto dell’opera. Se nel film di Cronenberg questo significava inserire veri e propri stralci biografici (gli alias di Jack Kerouac e Allen Ginsberg che vanno a trovare Lee in Marocco, l’omicidio della moglie, il lavoro di disinfestatore), Guadagnino sceglie di inserire all’interno del suo film il modo in cui Burroughs si approcciava alla scrittura.
William Lee non tocca mai una macchina da scrivere, l’operazione del regista è molto più incentrata sul linguaggio (inteso sia come linguaggio cinematografico che parlato), eliminando la nozione di tempo ma lasciando solo lo spazio in cui i suoi personaggi si aggirano “in cerca di una pera di furia1”. Spazio che è sia fisico ma anche mentale: i bar, i motel, gli interni delle case, la foresta sono traviati dalle proiezioni della psiche di un uomo consumato da un passato che lo tormenta (nella realtà l’uxoricidio involontario in un gioco alla Guglielmo Tell di Burroughs) e da un presente in cui non trova altra via se non quella che va giù per il collo di una bottiglia o che conduce in qualche camera a ore. La posticcità voluta con cui è ricostruita (Cine)Città del Messico acuisce il sentimento di smarrimento in questo film-labirinto, mentre ricorda l’ambientazione teatrale del già citato Querelle ed in cui la raffinata composizione delle inquadrature non è vana ricerca estetica, ma simulacro di una vita idilliaca un attimo prima che arrivi l’invasione di millepiedi.
Il desiderio è l’unico fattore con cui si può rimanere umani e diventa un viatico attraverso il quale far uscire ciò che i due protagonisti non riescono a dirsi o che non riescono ad accettare in loro stessi. Il corpo giovane e statuario di Allerton diventa un oppiaceo più potente di qualsiasi droga per Lee, incapace di non piegarsi alle sue pulsioni ogni volta che lo vede. Ma Guadagnino, a differenza di molte altre occasioni, utilizza il sesso come strumento di controllo e di dipendenza, ed è proprio per la potenza della passione che prova William nei confronti di Eugene che il regista siciliano riesce a restituire la frustrazione e le sofferenze del primo, incapace di essere amato ma anche di essere amante. Nasce dunque un’erotica discesa oscura nell’intimità di una coppia e di un personaggio che Guadagnino maschera da semplice melodramma, ma che nasconde il desiderio profondo dell’affogare nell’altro, privo di qualsiasi remora e sicuro del fatto che il linguaggio è qualcosa di superato.
1 Allen Ginsberg, Howl, il Saggiatore ed. 2021

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