MUTO
Di Gianluca Meotti

Se un film come Maciste (Luigi Romano Borgnetto, Vincenzo Denizot, 1915) uscisse oggi parleremmo di stand-alone, quei film dedicati esclusivamente ad un personaggio introdotto in un’altra opera. Maciste, infatti, è apparso per la prima volta nel 1914 come salvatore della piccola Cabiria nel film omonimo di Giovanni Pastrone; nonostante la sua subalternità nel film, ne diventa l’epicentro emotivo/divistico, spingendo la casa di produzione a farlo presenziare a numerose proiezioni, tanto era la presa che aveva nei confronti del pubblico (senza possibilità di proferire parola e con il volto dipinto di nero, in quanto Maciste è uno schiavo numida). Da qui il passo è breve, infatti, anche se il primo cinema italiano difetta di una pianificazione editoriale che gli costerà tutto sul lungo periodo; i produttori di Cabiria (Itala Film) capiscono che l’occasione è troppo ghiotta per farsela scappare ed iniziano la serie dedicata al loro eroe un anno dopo la sua prima comparsa, nel 1915.

Maciste (Bartolomeo Pagano) è il principale divo della Itala Film. Nonostante sia passato del tempo dall’uscita di Cabiria, il film continua ancora il suo viaggio nelle sale e strega platee infinite. Fra queste c’è una giovane ragazza, Josephine (Clementina Gay), che trova rifugio in un cinema dopo essere sfuggita a degli sgherri, inviati dal malvagio patrigno, che vorrebbero ucciderla; alla vista di Maciste sul grande schermo, capisce di aver trovato la soluzione ai suoi problemi e il giorno dopo gli fa recapitare una lettera in cui domanda l’aiuto del divo. Incontrata la giovane e ascoltata la sua storia, Maciste decide di aiutarla, mettendosi contro l’intera compagine schierata dal perfido patrigno.
Ciò che più salta agli occhi oggi in Maciste è l’incredibile predisposizione all’atletismo filmico che mette in scena Pagano: senza stunt né cascatori, l’ex portuale, quando il cattivo di turno fa scomparire il pavimento da sotto i suoi piedi, rimane sospeso tra le pareti di uno stretto corridoio grazie solamente alla forza che ha nelle braccia; oppure stupisce anche quando da terra, legato mani e piedi, riesce ad alzarsi e ad arrampicarsi sopra un tavolo fino a raggiungere il soffitto (che poi spaccherà a testate) per liberare la povera Josephine, anch’essa legata ma un piano più in alto. Ed è questa sua baldanza allo stesso tempo incredibile ma molto reale (il montaggio narrativo è ancora un concetto lontano) a fondare il mito di Maciste, dando al film l’aura del grande spettacolo quasi circense che il cinema possedeva ai suoi albori; uno sguardo (quello di chi guarda) che non può non meravigliarsi di fronte alle prestazioni fisiche di un uomo che è come noi e al contempo ci è così diverso. L’estasi per Pagano è totalizzante, capace anche di non far notare più di tanto gli obblighi narrativi da romanzo d’appendice (necessari all’epoca, ma ormai retorici). Anche perché, in tutto ciò, la regia di Borgnetto e Denizot sembra aver assimilato la lezione di Cabiria; quel timido uso di carrelli in avanti conferisce una piacevolissima dinamica, sviluppata, neanche a dirlo, attorno al corpo del protagonista.


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