ALPHA

Questa voce fa parte 24 di 34 nella serie N7 2025

NUOVE USCITE

Il corpo come campo di battaglia

Di Nora Zine

Dopo la Palma d’Oro con Titane (2021), Julia Ducournau firma un horror sensoriale e personale, ambizioso ma disordinato e a tratti isterico.

Quattro anni dopo aver scosso la Croisette con Titane, Julia Ducournau presenta Alpha, il suo terzo lungometraggio. Il Festival di Cannes, questa volta, la accoglie con un entusiasmo più moderato. Ma anche se non conquista il pubblico all’unanimità, la regista francese continua a spingere il suo cinema là dove pochi osano: nel territorio viscerale del corpo, dove la pelle, il sangue e la memoria diventano linguaggio.

Ambientato in una città portuale che richiama Le Havre, negli anni Ottanta, Alpha si apre su un paesaggio desaturato e ventoso. Un “vento rosso” — quasi un presagio apocalittico alla Mad Max — spazza le strade, mentre un virus sconosciuto miete vittime e trasforma i corpi in statue di alabastro. L’allegoria con l’epidemia di AIDS è evidente, ma Ducournau la piega a una dimensione più intima, quasi confessionale.

Alpha (la sorprendente Mélissa Boros), tredici anni, è una ragazzina impulsiva e curiosa. Durante una festa, ubriaca, si fa incidere una “A” sul braccio. Un gesto banale, di ribellione adolescenziale, che però scatena il panico nella madre, medico (Golshifteh Farahani), terrorizzata all’idea di un contagio. Da quel momento, la donna entra in una spirale di paranoia e rimorso, riattivando il trauma della perdita del fratello tossicodipendente, morto anni prima a causa dello stesso virus.

Il sangue, la madre, il fantasma

L’arrivo di Amin (Tahar Rahim, dimagrito di venti chili per il ruolo), fratello defunto e presenza spettrale, rompe ogni equilibrio. Si insinua nell’appartamento come un ricordo materializzato, una colpa che torna a chiedere attenzione. La giovane Alpha si muove tra il fascino e il terrore, tracciando sul corpo dello zio, con un pennarello nero, una “linea di vita” che unisce i buchi delle punture: un gesto di tenerezza, ma anche di disperazione.

Quando la madre decide di isolare la figlia per proteggerla, l’amore diventa muro, e la casa una prigione. Il sangue che continua a scorrere dal corpo della ragazza si contrappone alla pelle che si screpola dei malati. Il sangue che continua a scorrere dal corpo della ragazza si contrappone all’argilla secca dei contagiati: vivo contro morto, carne contro pietra. In mezzo al caos, Alpha scopre l’amore, il desiderio e la libertà.

Tuttavia, Ducournau rimane fedele alle proprie ossessioni: la mutazione, il corpo come rifugio e condanna, il legame inscindibile tra amore e distruzione. Dopo il cannibalismo in Raw – Una cruda verità (Grave, 2016) e la gestazione biomeccanica di TitaneAlpha prosegue il percorso di una regista che non teme l’eccesso.
La sua estetica resta riconoscibile: luci violente, rumori che graffiano, dettagli epidermici che si imprimono come ferite. È un cinema che non si guarda: si sente, si subisce, come una febbre.

Le influenze sono chiare — Cronenberg, Aronofsky, ma anche il Carrie – Lo sguardo di Satana (1976) di Brian De Palma e l’angoscia metallica di Lynch — eppure Ducournau le fagocita in un linguaggio tutto suo, più emotivo che narrativo.

Visione o delirio?

Tuttavia, la forza visionaria non basta sempre a salvare la coerenza del racconto. Lavorando da sola alla sceneggiatura, Ducournau sembra inciampare nel suo stesso mondo interiore: Alpha alterna momenti di potenza ipnotica a derive isteriche, urla, pianti, dialoghi deboli.
L’alternanza cromatica — arancio per il passato, blu per il presente — rischia di essere più estetica che significativa, e lo spettatore si perde in un labirinto visivo che a volte non conduce da nessuna parte.

La mancanza di ironia e la sovrabbondanza di pathos tradiscono un rapporto ancora troppo emotivo con il materiale narrativo.

Il caos come manifesto

Nel tentativo di fondere teen movie, dramma familiare e horror paranoico, Alpha finisce per dissolversi in un “film-caos”: un’opera esteticamente ipnotica ma priva di centro, che si irrigidisce sotto il peso delle proprie contraddizioni. Una favola corporea e luttuosa, tanto ambiziosa quanto fragile — specchio perfetto della filmografia di Julia Ducournau, sempre in bilico tra carne e simbolo.

Eppure, Alpha rimane un oggetto cinematografico raro: imperfetto, ma pulsante di vita. 

Nel caos visivo e sonoro, Alpha trova la sua poesia: un requiem per la materia vivente, per la generazione che ha conosciuto il virus come eredità e la mutazione come destino. Un film che non chiede di essere amato, ma di essere sentito.

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Autore

  • Studentessa al secondo anno di DAMS, Nora nasce nel lontano 2003 nella stridente Parigi, ma cresce per lo più tra i bar del Pratello da genitori appassionati di cinema. Il suo primo ricordo legato a quest’arte è la visione di La corazzata Potëmkin alla tenera età di quattro anni per ragioni ancora da chiarire. Forse nella speranza che si addormentasse. Non ha funzionato: anzi, ha solo alimentato la sua curiosità. Da quel giorno spulcia tutti i cinema, i festival, le mostre e le rassegne che incontra sul suo cammino.


     

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