I RAGAZZI DELLA NICKEL

Questa voce fa parte 11 di 41 nella serie N3 2025

NUOVE USCITE

Di Gianluca Meotti

C’è un dialogo all’incirca alla metà de I ragazzi della Nickel (Nickel Boys, RaMell Ross, 2024) in cui i due protagonisti stanno ridipingendo la veranda della casa di Mr. Hardee, direttore dell’istituto-lager in cui sono rinchiusi. Discutendo del clima sociopolitico di quegli anni, finiscono a parlare di una protesta messa in atto da alcuni studenti afroamericani davanti ad un supermercato di Tampa per rendere il buffet aperto a bianchi e neri. La storia la sta raccontando Turner (Brandon Wilson), il quale conclude dicendo che alla fine le proteste hanno avuto successo e che da ora in poi chiunque può accedere al buffet del Woolworths; a parte lui, che non ha comunque abbastanza soldi.
Fondamentalmente il film è già tutto qui, due ore e venti di riflessione su due punti di vista della stessa condizione: la gerarchizzazione della questione razziale negli Stati Uniti, che colpisce tutti, ma non allo stesso modo. E il film è in grado di tradurlo a linguaggio per immagini adottando scelte radicali e vellicando i limiti di un certo cinema politico/sociale, che taciturnamente vieta la sperimentazione di linguaggio dando importanza solo al contenuto. RaMell Ross ribalta questa concezione e, al suo primo lungometraggio nella fiction (dopo un esordio col documentario del 2018 Hale County This Morning, This Evening, candidato ad un Oscar), sceglie di prendere una storia premio Pulitzer e girarla interamente con delle soggettive dei due protagonisti e dei piani sequenza.

Ideato da Colson Whitehead, una delle penne più importanti della narrativa americana contemporanea, ma tratto da una storia vera, è la storia di Elwood (Ethan Herisse) e Turner, due giovani afroamericani rinchiusi nell’istituto giovanile di correzione Nickel. Gli sfondi da cui provengono sono antipodali: Elwood è uno studente modello con una sensibilità particolare per il nascente movimento dei diritti civili del Dr. King, e grazie all’intercessione di un suo professore riesce ad entrare in un’università riservata a studenti neri alla quale non giungerà mai per un colpo del destino; Turner, invece, è un proletario senza particolari ambizioni e senza una storia unica.
Trovatisi in un contesto che gli fa scontare costantemente la colpa di non essere nati con il giusto colore di pelle, si faranno forza l’un l’altro per sopravvivere a soprusi e torture, mostrando allo stesso tempo le problematicità e le sfaccettature di una società in cui non basta una legge per cambiare radicalmente i rapporti fra i singoli.

Il film è infuso di un profondo scetticismo, e nonostante la durata generosa non c’è mai spazio per lo sviluppo dei personaggi, che si ritrovano ad essere spettatori attoniti (come chi li guarda) di una realtà che appare immutabile e che, lontana da sguardi indiscreti, rivela una malignità endemica di chi la abita. Di Turner ed Elwood si sa il minimo indispensabile a costruire una narrazione convincente, ma niente di più. Il focus è un quadro generale sugli Stati Uniti dei primi anni Sessanta, con una lente di ingrandimento che va ad evidenziare quel razzismo latente o “gentile” che coinvolge tutti i cittadini. La coscienza privata del singolo è specchio di quella collettiva, sembra voler dire Ross: in ogni americano c’è spazio per un seme di razzismo purissimo che sboccia quando riconosce un suo simile. E così il vicedirettore Spencer (Hamish Linklater) e i suoi sottoposti, in una scena di tortura, sembrano dare sfogo a qualcosa che tenevano represso, la violenza e la repressione diventano puro piacere fisico. La camera di Ross non indugia mai su questi atti più di qualche secondo, e così facendo non vengono recepiti come casi straordinari che vale la pena filmare, ma come attività abitudinarie come il pranzo in mensa o le docce fredde con una sola saponetta per tutti. L’attacco di Ross trova riscontro anche nella realtà, dato che è stato solo nel 2011 che si è iniziato a parlare degli abusi perpetrati alla Nickel Academy e solo dal 2014 qualcosa ha iniziato a smuoversi sul piano legale. Sono state trovate varie fosse comuni e tombe anonime, dato che i ragazzi che morivano lì (soprattutto non bianchi) venivano ufficialmente considerati come fuggitivi e così dimenticati.

Pur essendo un’opera prima, il film elude molti dei passi falsi del rookie. La scelta linguistica è il punto di partenza fondamentale. Estremizzata, coraggiosa e alle volte invasiva, riesce ad evitare qualsiasi didascalismo inutile e a creare un dialogo per immagini, che mette in contrasto la compiutezza stilistica dell’immagine stessa con il contesto ed il sottotesto tragico. La fotografia satura ed avvolgente di Jomo Fray si scontra con la tematica degradante, che accentua l’idea normalizzata e sistematica del razzismo che Ross vuole restituire. La potenza dei paesaggi della Florida rurale in estate, con i suoi frutti colorati e alberi in fiore, contribuisce ad appagare l’occhio anche quando la scelta soggettivista diventa difficile da digerire; in particolar modo perché a tratti crea un effetto da videogioco FPS in cui il personaggio che si controlla ritarda la sua risposta perché il giocatore è indeciso su quale alternativa cliccare.

Ma l’inventiva e la sperimentazione sono tutte lì da vedere, ed in questo senso è ottimo il messaggio dell’Academy che ha nominato I ragazzi della Nickel alla statuetta più ambita, quella per il miglior film. Certamente le chance sono poche, ma già essere nominati è un riconoscimento e si spera uno stimolo produttivo nell’investire in progetti più audaci che testino nuove possibilità del mezzo.

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Autore

  • Studente DAMS di giorno; per il resto cinema, film e pellicole cinematografiche. Nella sua testa c’è sempre un piccolo Marshall McLuhan che gli dà ragione.


     

     

     

     

     

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