27-99: IL CINEMA CHE RIFLETTE SU SE STESSO
Tra allucinazione e paranoia rossa, il metacinema secondo i fratelli Coen
Di Riccardo Morrone
Allucinante e allucinato. Nessun altro aggettivo saprebbe rendere meglio il vorticoso viaggio dei Coen nella Hollywood dei primi anni Quaranta, Barton Fink – È successo a Hollywood (Barton Fink, 1991), un’assurda indagine sull’oblio del processo creativo attraverso le difficoltà di un giovane scrittore all’interno dello Studio system.
Pluripremiato al Festival di Cannes nel 1991 (Palma d’oro, premio alla regia e miglior interpretazione a John Turturro), il quarto lungometraggio dei Coen Bros. non solo si cala all’interno delle dinamiche produttive dell’industria cinematografica americana, ma soprattutto riesce a penetrare nella profondità del rimosso dell’artista e del suo sforzo creativo. Siamo nel 1941 (l’anno dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale), Barton Fink (John Turturro) è un apprezzato drammaturgo newyorkese che viene messo sotto contratto dalla Capitol Pictures, fittizia major hollywoodiana, con l’incarico di realizzare la sceneggiatura di un film di serie B sul wrestling con Wallace Beery come protagonista. Quello che dovrebbe essere un lavoro lineare e agevole si rivelerà un’impresa a dir poco travagliata per Barton, portando a galla tutte le sue fragilità in un contesto a lui così avverso.
Appena arrivato a Los Angeles, lo vediamo avvicinarsi in silhouette alla hall deserta e polverosa dell’Hotel Earle: la sua figura si trova già completamente immersa nell’ombra e, come è chiaro fin da subito, lo squallido albergo in cui è alloggiato non è altro che la concretizzazione in luogo fisico del suo malessere, tra punture di insetti, rumori disturbanti e incontri singolari. Infatti, anche gli open credits del film scorrono sulla carta da parati scolorita che ricopre le pareti della sua camera da letto così spoglia e umida, quella stessa tappezzeria che di lì a poco comincerà a staccarsi di pari passo all’inesorabile deteriorarsi della psiche di Barton. La performance atipica di Turturro, il suo sguardo perso dietro agli occhiali tondi e i capelli arruffati, alimentano il clima di grottesca incertezza e angosciante claustrofobia che lo circonda, esaltati da un montaggio meticoloso, dalla puntualità delle carrellate e soprattutto dalla fotografia di un maestro come Roger Deakins, alla prima collaborazione con i Coen.
La figura di Barton Fink è stracolma di contraddizioni. Ad esempio, la sua pretesa di stampo socialista di raccontare «l’uomo comune» si scontra fin da subito con le elevatissime ambizioni che ha e poi ripetutamente con gli incontri che la realtà gli riserva: basti pensare che l’unico individuo con cui stringe un legame, il robusto e sudaticcio agente assicurativo Charlie Meadows (John Goodman), si scopre essere un pazzo omicida. Il suo vero nome, tra l’altro, è Karl Mundt, lo stesso del vicepresidente della Commissione per le attività antiamericane che perseguitò attori, sceneggiatori e registi con presunte simpatie socialiste durante il maccartismo. Anche il rapporto con Audrey (Judy Davis), segretaria/amante di W.P. Mayhew (John Mahoney), è dominato da una sorta di incomprensione di fondo, da una distanza incolmabile: Barton vorrebbe trovare in lei un rifugio emotivo, ma ciò che finisce per ottenere incontrandola è solo la definitiva disgregazione delle poche certezze a lui rimaste.
«I’ll show you the life of the mind! [Vi mostrerò la vita della mente!]» ripete urlando Charlie/Karl prima di trucidare i due detective dopo aver dato fuoco all’albergo. Alle sue spalle, per tutta la lunghezza del corridoio, le fiamme divampano lungo le pareti incorniciando la sua figura demoniaca, a suggellare una delle istantanee più incisive della breve storia del postmodernismo cinematografico. Mostrare la vita (e la morte) della mente, questo è l’intento di Barton Fink: esternare l’alienazione del suo protagonista, un autore soffocato dal modo di produzione hollywoodiano (per usare la formula di Bordwell, Thompson e Steiger); un «creatore», come lui stesso si definisce, sofferente e incapace di reagire schiacciato com’è tra gli ingranaggi di una macchina industriale incessante come Hollywood. E in effetti il senso di estraneità che egli prova nei confronti di Los Angeles e della West Coast in generale è per sua natura identico a quello avvertito e più volte postulato da un altro sublime autore ebreo newyorkese come Woody Allen.
Così, Barton Fink presenta l’attività creativa come un atto dirompente e lancinante, quasi autodistruttivo. L’Hotel Earle, il suo incendio, la fotografia appesa al muro e persino la scatola di Charlie che Barton porta in giro alla fine: nient’altro che sfumature della «vita della mente» e della sua incapacità di scindere ciò che è reale da ciò che è solo percepito. Parafrasando David Foster Wallace, se a David Fincher interessa il contenuto della scatola, ai Coen interessa la scatola.
«It is 5:00 AM. Still shank of night for some. But, for Eddie Mannix, beginning of a new work day. The movie studio for which he works manufactures stories. Each, its own daylit drama, or moonlit dream. But, the work of Eddie Mannix cares not for day or night. And cares little for his rest.»
Se Barton Fink descrive l’alienazione individuale del suo protagonista, nel gioiello dimenticato Ave, Cesare! (Hail, Caesar!, 2016) – penultimo film del duo – i Coen allargano il campo rappresentando la psicosi di un intero sistema e congegnando un’operazione di ancor più strutturata astrazione concettuale. Dal western al sofisticato melodramma, dal film storico al musical, i due si muovono con invidiabile versatilità da un registro all’altro, confermando tutta la loro sconfinata abilità dietro la mdp tra magnifiche coreografie caleidoscopiche, numeri musicali affollati di marinai e pure una breve sequenza ipnotica di montaggio in moviola con Frances McDormand. Siamo nel 1951, dieci anni più avanti di Barton Fink, ma sempre negli Studios della Capitol Pictures, e tutto ruota attorno al rapimento della star Baird Whitlock (George Clooney), improvvisamente scomparso dal set del mastodontico peplum “Hail, Caesar!” di cui è protagonista proprio prima di girare il climax emotivo del film. Una sparizione di cui si deve occupare il produttore tuttofare Eddie Mannix (Josh Brolin), integerrimo fixer della Capitol Pictures. Il suo compito è, infatti, proprio quello di prevenire o risolvere ogni tipo di grana che potrebbe minare la reputazione della major, dalla gravidanza dell’attrice DeeAnna Moran (Scarlett Johansson) fino al sequestro di un divo ad opera di un gruppo di sceneggiatori comunisti (capeggiato da una star del musical che è anche una spia sovietica).
Con Ave, Cesare! i Coen presentano, dunque, una radiografia suggestiva e anche piuttosto accurata di Hollywood e, soprattutto, delle due grandi ombre che incombevano su di essa nei primi anni Cinquanta: la diffusione degli apparecchi televisivi e il clima di paranoia connesso alla caccia alle streghe maccartista. E lo fanno evocando le vicende storiche che conosciamo (il processo agli Hollywood Ten e la black list) ma soprattutto declinando in chiave ironica la dialettica marxista al mondo del cinema: gli sceneggiatori vengono così riconosciuti come la vera forza lavoro dell’industria cinematografica, privata del valore generato dalle loro idee dagli Studios che detengono il possesso dei mezzi di produzione. Questi sceneggiatori sono tanto decisi e risoluti da riuscire a portare dalla loro parte anche un divo come Whitlock convertendolo in poche ore alla causa comunista, salvo poi dimostrare loro stessi un inestirpabile attaccamento al capitale quando sul finale la valigetta con i centomila dollari del riscatto finisce in fondo all’oceano e sui loro volti si legge un irreprimibile ghigno di sconforto. Inoltre, se la scena finale di Barton Fink sulla spiaggia californiana imponeva una riflessione teorica sul punto di vista come rapporto reciproco tra lo sguardo dell’osservatore e l’oggetto osservato nella compenetrazione tra la realtà e la sua rappresentazione, uno dei momenti finali di Ave, Cesare! torna ad insistere sulla collisione tra verità e finzione: quando Baird Whitlock, tornato sul set del film, si trova ad interpretare il monologo conclusivo – in cui rivela l’avvenuta folgorazione per la religione cristiana del suo personaggio – può ora recitare in maniera del tutto naturale, come se si stesse riferendo alla sua fresca “conversione” al comunismo. Ci troviamo allora di fronte ad una piena consonanza emotiva tra l’attore e il personaggio, una consonanza che permette ai Coen, tra l’altro, di costruire un fine parallelismo tra la religione e il comunismo.
In entrambi i film il microcosmo hollywoodiano viene dipinto come un paesaggio umano dominato da ego ingombranti e modi brutali, come quelli del tirannico tycoon (e colonnello dell’Esercito) Jack Lipnick (Michael Lerner) o dello scrittore consumato dall’alcool W.P. Mayhew – modellato sulla figura di William Faulkner – ma lo stesso si può riscontrare anche nel regista Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) e nell’altezzosa coppia di giornaliste gemelle (Thora e Thessaly Thacker, interpretate da Tilda Swinton). Ed Eddie Mannix pare ben consapevole di ciò. Lui, a differenza di Barton che dichiarava fin dal nome (Fink come “to think”, pensare) la sua predisposizione allo sforzo intellettuale, è un uomo con i piedi ben piantati a terra, che bada al concreto e rimanda all’aspetto strutturale di Hollywood, come il suo stesso cognome suggerirebbe (Mannix come “manic”, vale a dire “maniacale”). Alla fine, però, Eddie sceglie di rimanere alla Capitol rifiutando un’offerta di lavoro più conveniente e meno stressante perché, nonostante tutto, crede profondamente nel valore dell’industria in cui lavora. Ecco ciò che accomuna nel profondo Eddie e i fratelli Coen: la sconsiderata fiducia nel potere del mezzo-cinema e nella fabbrica dei sogni hollywoodiana, anche mentre Los Angeles – proprio come l’Hotel Earle – va in fiamme.

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