NUOVE USCITE
Familiar Touch e l’esperienza sensoriale della memoria
Di Riccardo Morrone
Ruth Goldman (Kathleen Chalfant) è un’anziana signora. La vediamo prepararsi con meticolosa attenzione davanti allo specchio, poi intenta ad assemblare con la stessa precisione un sandwich nella cucina ordinata della sua casa borghese. Però qualcosa non quadra, lo si avverte fin da subito. Ecco che viene a trovarla un uomo di mezz’età, gentile nei modi ma anche un po’ nervoso: si chiama Steve (H. John Benjamin) ed è il figlio, noi lo intuiamo benché lei non sembri avvedersene. Ruth non sa nemmeno – o, meglio, non se ne ricorda – che di lì a poco dovrà abbandonare quell’abitazione. Infatti, Steve è lì per prelevarla e portarla al Bella Vista, un «geriatric Country Club» che hanno scelto assieme. Ruth verrà sistemata al terzo piano dell’edificio, il cosiddetto «Viale dei ricordi», quello che accoglie gli ospiti “un po’ smemorati”. L’avvio di Familiar Touch (Sarah Friedland, 2024) è, dunque, piuttosto brillante e ingegnoso, poiché pone lo spettatore sullo stesso livello della protagonista da un punto di vista percettivo e cognitivo, mettendolo nella condizione di scoprire da sé quanto sta realmente accadendo e costruendo un’opposizione tra l’acquisita consapevolezza di chi guarda e lo smarrimento di Ruth all’arrivo nella casa di riposo. Con uno sguardo al tempo stesso clinico e poetico, la sceneggiatrice e regista trentatreenne Sarah Friedland mette a fuoco il ritratto di un’anzianità vitale, sfumata, colta nel suo incedere emotivamente altalenante e talvolta gravoso. Mentre la casa di Ruth viene svuotata, fra le mura del Bella Vista noi assistiamo al materializzarsi di un coming of age sottosopra, un viaggio di (ri)scoperta e accettazione di sé alimentato dai profondi legami con l’infermiera Vanessa (Carolyn Michelle Smith) e con il medico Brian (Andy McQueen).

Se The Irishman (Martin Scorsese, 2019) si muoveva tra i corridoi di un RSA per recuperare la storia di Frank Sheeran come antidoto ad una dilagante amnesia collettiva (rispetto ai casi di Hoffa e Kennedy e agli ultimi decenni della Storia americana), Familiar Touch, una pellicola girata di fatto interamente in una struttura per la cura degli anziani, esplora la galassia dei caregivers, il loro lavoro, le cure e il contatto familiare che riservano ai propri ospiti; lo fa avvalendosi quasi totalmente dei veri professionisti e dei veri anziani che animano la Villa Gardens retirement community di Pasadena. Soprattutto, Familiar Touch presenta la memoria (e il progressivo deteriorarsi della stessa) non come un archivio razionale, ma come una forma di esperienza polisensoriale che oscilla con sinestetica imprevedibilità tra profumi, sapori, suoni, vibrazioni e impressioni tattili. In questo modo, il corpo anziano si scopre spazio di memoria e di desiderio mai sopito. Un concetto espresso con intensità ed eccezionale delicatezza da un momento centrale del film, quello in cui Ruth, dolcemente cullata dalle acque della piscina del Bella Vista, viene riportata ad un fugace ricordo infantile che affiora negli schiamazzi dei bagnanti e nella voce della madre.

Dell’autrice esordiente, pluripremiata nella categoria Orizzonti all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, colpisce soprattutto la sensibilità nella messa in scena, che fa leva sulla fotografia essenziale di Gabe C. Elder e sull’assenza di una colonna sonora musicale per lasciare spazio alle impressioni sonore e agli stimoli uditivi (ma anche al silenzio), senza tradursi mai in eccessi consolatori o in una drammatizzazione esasperata e ponendosi in assoluta continuità con la maestria dell’interprete. Kathleen Chalfant, attrice teatrale di sconfinata esperienza, regala una prova straordinaria, in grado di restituire con naturalezza e raffinata sottigliezza la complessità di una donna attraversata da tutte le sue età. Quella di Ruth, infatti, è un’identità non lineare, multiforme: in lei convivono la lucidità e la dimenticanza, l’ironia e lo spaesamento, il pudore e la sicurezza. Tutte le emozioni, tutte le personalità e tutte le età, appunto. E, soprattutto, la sua è una presenza magnetica – fragile e insieme autorevole – che Friedland riesce ad inquadrare con rispetto e prossimità, come se la mdp fosse un’estensione del tatto.
Senz’altro, guardando Familiar Touch ci si trova di fronte ad un esordio più che positivo, di notevole consapevolezza stilistica. Un racconto di formazione ribaltato, che sfiora, accarezza, respira la verità del quotidiano della sua protagonista: la verità dell’invecchiamento e la ruvida vivacità della senilità, catturate senza indulgenza né sensazionalismo.

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