THE APPRENTICE – ALLE ORIGINI DI TRUMP

Questa voce fa parte 33 di 41 nella serie N3 2025

GLI OSCAR

La morale nell’immoralità di Donald Trump

Di Sibilla Bissoni 

The Apprentice – Alle origini di Trump (Ali Abbasi, 2024) è una pellicola che si potrebbe definire patinata nella sua ferocia. Guardando questo variegato biopic, si ha la piacevole sensazione di assistere alla creazione di un enorme affresco dell’ascesa di Donald John Trump. 
Abbasi dipinge con sapienza e senza ingenuità l’uomo e il successivo mito dell’imprenditoria targata USA, un figliol prodigo del capitalismo americano, il self-made man proveniente dall’aristocrazia premoderna che si cela (neanche troppo bene) sotto le fandonie dell’American Dream
Le due colonne portanti della storia, narrata in centoventidue minuti, sono senza ombra di dubbio i due attori principali: Sebastian Stan (Trump) e Jeremy Strong (l’avvocato di fiducia dell’indiscusso protagonista, ossia Roy Cohn). 
I dialoghi del film sono fantastici, la macchina da presa balza da una frase all’altra muovendosi tra bocche e parole in maniera minuziosa e la perfetta alchimia tra Strong e Stan è palese, riuscendo a farci immergere nel loro entusiasmo in più momenti. 
Attraverso una frenetica scalata verso il successo sfrenato, guarderemo Trump fare pubbliche relazioni nei locali più in vista della Grande Mela, spalleggiato quasi sin dal primo giorno dal famoso avvocato Roy Cohn, personaggio più che affascinante. 
Il film, concettualmente e visivamente, strepita e urla “anni Ottanta!” da tutti i pixel proiettati in sala, e la color correction e le scenografie fanno il resto. 

In una sorta di storia d’amore malata e stacanovista tra avvocato e cliente, assistiamo ad una narrazione che ricorda un Frankenstein contemporaneo: uno scienziato (in questo caso avvocato) che ripudia la morale della società comune, sguazzandoci dentro per manipolare a suo favore e suo successo tutto il possibile e che, letteralmente, crea la sua creatura (in questo caso Trump), insegnandole tutto ciò che sa, dandole ogni strumento per raggiungere la vetta degli Stati Uniti d’America – a costo di sputare in faccia a chi era amico, di pestare i piedi ai deboli e agli inetti, di violentare senza pietà, di far sì di essere sempre il più forte, il più affascinante e il più feroce, perché solo così si vince tutto senza lasciare nulla agli altri. In questo scenario, Donald incontrerà quella che poi diventerà la sua moglie storica: Ivana Marie Zelníčková, modella ed imprenditrice ceca naturalizzata statunitense. Si tratterà di un amore travolgente e conveniente (i due aggettivi non sono in ordine di importanza), un amore che porterà Trump, per una delle poche volte nella sua vita, a non ottenere istantaneamente quello che vuole. 
La coppia scoppierà dopo anni e anni d’agonia, agonia iniziata forse appena dopo aver pronunciato le promesse al matrimonio.
La narrazione della pellicola ci conduce su un ottovolante di azioni, successi e ambizioni, senza lasciare mai da parte le grandi ipocrisie tipiche del paese più potente del mondo. 
A proposito di questi argomenti, ho trovato interessantissime le scene all’interno di una sfrenata festa a casa Cohn, dove l’avvocato indice uno dei suoi party senza limiti, in cui tutta la scena queer della New York a metà tra i Settanta e gli Ottanta è presente, tra cui l’iconico Andy Warhol che parla anche con Donald, situazione davvero paradossale ma allo stesso tempo molto bella nella sua stranezza. Trump, all’interno del lungometraggio, si fa baluardo di un’America spaventata più che mai dal nemico socialista, dedita a spingere in alto grandi imprenditori stacanovisti e maccartisti come lui. Ali Abbasi non ha paura di mostrare i suoi due personaggi principali nel bene, ma soprattutto nel male. Roy Cohn è rappresentato da Strong come probabilmente era, in maniera cruda e spietata. La sua abnorme ascesa corrisponderà ad una altrettanto abnorme discesa negli inferi più torbidi delle anime nere di cui si circondò per tutta la vita. 
In fretta e sempre e comunque sotto ai riflettori, Trump, da “sfigato” ragazzo del Queens la cui occupazione è ritirare gli affitti degli inquilini che alloggiano nel regno immobiliare del padre, diverrà carismatico uomo d’affari, che vuole soldi e successo come prima cosa, sempre. 

Il caro vecchio Donald ci verrà mostrato per l’uomo che è, al di là del mito, un uomo che presto perde ogni piccolo scrupolo – che già scarseggiava in lui in giovane età – capace di dimenticare e trattare con orrenda sufficienza, solo perché malato di AIDS, l’avvocato che l’ha letteralmente condotto a ricchezza e fama infinite. Trump è troppo moralista nella sua immoralità, troppo in vista per farsi beccare con un vecchio amico caduto in una disgrazia senza eguali.

Il film merita di essere visto perché è spietato, e le cose spietate non vanno più tanto di moda, come gli anni Ottanta. Ma la verità è che questa cruda e reale fiaba va conosciuta, che l’ascesa di Trump grazie a questo film può divenire un sogno, un monito, un incubo ma, prima di tutto, una storia davvero appassionante, di quelle che il cinema odierno riesce a raccontare davvero di rado oramai.

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Autore

  • Sibilla Bissoni, classe 2004, nasce a Ravenna circa vent’anni fa. Frequenta il liceo artistico della città e si appassiona inizialmente alla fotografia ed in seguito al mondo del cinema, portando sempre avanti un amore parallelo per l’arte teatrale.
    Attualmente studia e vive a Bologna, frequentante del DAMS e frequentatrice di vari cinema, teatri e locali.
    Di lavoro fa la videomaker, destreggiandosi tra discoteche, eventi di varia natura e all’occorrenza matrimoni.
    Adora il reportage e la sua videocamera, le piace osservare quel che può e poi raccontarlo a parole o ad immagini.
    Pensa che un giorno sarebbe bello realizzare un vero documentario (e magari anche più di uno, e magari anche un film…) e contemporaneamente scrivere di quello che ama per vivere.


     

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