NUOVE USCITE
Di Gianluca Meotti
Con la Francia come plotone in prima linea per le lotte #MeToo – vedasi il recente scandalo relativo a Il caso Belle Steiner (Belle, Benoît Jacquot, 2024) – era facile supporre che Le donne al balcone – The Balconettes (Les Femmes au balcon, Noémie Merlant, 2024) avrebbe rappresentato un altro capitolo della lotta femminista al cinema, carico di passione per le questioni di genere e di messaggi importanti ma magari un po’ carente sotto il profilo della struttura, con scelte e conclusioni telefonate e questioni imbastite per sommi capi. Al secondo film dietro la macchina da presa Noémie Merlant, invece, ribalta sia questo stereotipo sia vari stereotipi di genere, e si concentra non tanto sull’intenzione, che è palese, ma opera una riflessione femminista in chiave puramente cinematografica, rappresentando un tipo di femminilità da sempre celata al cinema e quindi scandalosa. Il vero messaggio è puramente metatestuale: scardinare quella parte di male gaze nociva con l’immagine, facendo questo con e per il cinema tutto.

Marsiglia, estate. Una donna abusata e picchiata dal marito, dopo l’ennesima lite, decide di ucciderlo aprendogli il cranio con una paletta per il giardinaggio. Sconvolta, decide di andare a chiedere aiuto alle ragazze del piano di sotto, che l’aiutano. Queste sono Ruby (Souheila Yacoub), istrionica camgirl, e Nicole (Sanda Codrenau), aspirante scrittrice. Alle due si aggiungerà presto Élise (Noémie Merlant), attrice di programmi televisivi che è fuggita da un marito che mal sopporta.
Nei giorni seguenti le ragazze trovano conforto dal clima torrido fra aperitivi e cene in balcone, posizione privilegiata che gli permette di osservare l’avvenente dirimpettaio (Lucas Bravo); quando questo le invita nel suo appartamento a bere qualcosa, le giovani accettano, ignare di ciò che succederà. Il vicino rivela la sua vera natura una volta rimasto solo con Ruby: dopo un tentato stupro, lei per difendersi uccide accidentalmente l’uomo, scatenando il panico nel gruppo.
Sulle spalle di Hitchcock e Almodóvar e senza dimenticare le lezioni di Céline Sciamma, che qui co-sceneggia, Noémie Merlant sceglie una via piuttosto insolita per il cinema transalpino. Il patchwork con i generi è una cosa che raramente si vede nel cinema francese: pur abbondando cineasti che hanno sondato ogni anfratto possibile del mezzo (dal racconto grottesco di Jeunet e Caro, passando per Pascal Laugier fino a Julia Docournau), è abbastanza inusuale incappare in commistioni di mondi differenti come questo The Balconettes. Con la citazione in apertura de La finestra sul cortile (Rear Window, Alfred Hitchcock, 1954) si entra nel coloratissimo e liberissimo ed eroticissimo e divertentissimo e coloratissimo mondo di queste trentenni sull’orlo di una crisi di nervi; sorellanza pura che viene messa in scena secondo canoni privi di qualsiasi intento intrappolante. La metafora del balcone, elemento che permette loro di esprimersi agli occhi del mondo nelle vesti che desiderano, è carica di significati sotterranei e anche contraddittori. Possono finalmente sentirsi libere di prendere il sole in topless o di masturbarsi utilizzando una vecchia sedia a dondolo di legno, ma non sono veramente libere in quanto oggettificate da chi le osserva morbosamente, equiparate a fenomeni da vaudeville erotico per i vicini (uomini) che non aspettano altro che facciano cadere i reggiseni e il pudore. Su quei pochi metri quadrati si gioca la battaglia politica e ideologica che Merlant e il suo cinema portano avanti, la libertà che una società patriarcale “concede” alle donne è per lo più intellettuale e di pensiero, ma con maggiore difficoltà per quanto riguarda quella di libertà nell’uso del corpo. Lo stesso approccio viene riproposto nelle scene dei due stupri (più avanti avrà luogo uno stupro coniugale): i due uomini colpevoli prendono possesso del corpo, da loro considerato come inerme, delle “partner”. E Merlant, che nei film da attrice utilizza il suo corpo come atto politico mostrandosi e affermando costantemente la sua fisicità, qui si scaglia contro queste dinamiche di sguardo maschili e oppressive, portando in scena tutto ciò che di solito rimane taciuto. Più di tutte rimane in testa la scena della sua visita ginecologica, in cui il suo personaggio viene ripreso quasi frontalmente consentendo uno sguardo pressoché totale delle sue parti intime, ma è tutto il corollario di nudi completi, flatulenze, spalline di vestiti che cadono mostrando il seno a definire le vere intenzioni della regista/interprete. Un female gaze privo di rimorsi e di vergogne, che mostra il corpo femminile soprattutto nei suoi momenti meno sensuali.
Il fecondo sottobosco teorico viene poi alleggerito dal tono di commedia molto black (questa sì almodovariana) che si ritrova in superficie. Brillano le tre protagoniste quando si ritrovano contemporaneamente in scena e la sceneggiatura le supporta (cosa che avviene non sempre, soprattutto andando verso i titoli di coda). Coadiuvate dalla scenografia di Chloé Cambournac, piena di colori ma a volte disarmonica, la chimica portata in scena è l’elemento più accattivante di tutta l’opera: soprattutto quando si vira in luoghi molto più oscuri e “seriosi”, la tendenza all’esagerazione comico-grottesca ripaga sempre, in un tango fra macabro riso e disarmante realtà.

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