TECNICA
Un viaggio nella follia casalinga
Di Sibilla Bissoni
Roman Polański ha cercato di racchiudere tre menti, tre cervelli e tre analisi psicologiche in tre appartamenti. Lo ha fatto in tre annate differenti: il 1965 per Repulsione (Repulsion), il 1968 per Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (Rosemary’s Baby) ed infine il 1976 per L’inquilino del terzo piano (Le Locataire). I tre film insieme, in seguito, furono ufficialmente e popolarmente nominati come la “trilogia dell’appartamento”.
Polański ama gli spazi angusti (e non solo letteralmente), li ama anche quando all’occhio paiono ampi, ma in realtà rappresentano i cunicoli più stretti della psiche umana. Abbiamo tre protagonisti differenti per tre film sovrapponibili su tanti aspetti, sebbene d’identità molto variegate tra loro.
Al primo posto la protagonista indiscussa di Repulsione, Catherine Deneuve nei panni di Carole Ledoux; al secondo troviamo la fantastica Mia Farrow ad interpretare Rosemary Woodhouse; al terzo, il regista franco-polacco si mette in gioco in prima persona per interpretare l’ambiguo Trelkowski.

Nonostante lo stacco di ben undici anni tra l’uscita del “primo capitolo” della trilogia rispetto all’ultimo e l’interesse non chiarito inizialmente nel dare vita ad una vera e propria trilogia, il regista riesce a dare linearità e un senso personale nella scaletta dei tre lungometraggi. La cifra stilistica di Polański è sempre presente e ben calibrata.
Siamo di fronte ad uno dei maestri della critica alla borghesia, nonché ad un regista che ha saputo sempre trasporre in maniera tra il nauseante e il meraviglioso la sua continua tragedia personale all’interno della sua opera.

Polański ama mettersi in gioco con inquadrature d’avanguardia, dove con la sua mano usa il cineocchio come un cucchiaio ben rodato, che scava prima nel volto anoressico di Rosemary, poi nella mano smaltata e tremante di Trelkowski.
Il celebre cineasta ama e brama la claustrofobia più angosciante all’interno di questa trilogia. Una donna si ritrova faccia a faccia con la sua follia latente e pronta a divampare in ogni dove nella storia narrata in Repulsione; una coppia di sposini borghesotti e a prima vista quasi ingenui si fa trarre in inganno da una setta satanica, in una spirale di violenza e patti col diavolo; ed infine, un individuo a dir poco naïf (interpretato dal regista stesso) si trasforma di sua spontanea volontà in una ragazza depressa che poco prima ha deciso di suicidarsi. Insomma, non si tratta di temi da bar o da commediola romantica. I film di Polański rappresentano realtà bloccate, ineffabili, crudeli. E lui dirige le macchine da presa che, osservando direttamente o di sbieco i suoi personaggi, prima riprendono loro e poi procedono asciugando le lacrime e la rabbia del regista.

L’inquietudine è l’albero maestro del veliero su cui alberga la trilogia dell’appartamento, in primis nei film stessi, e poi collegandosi crudelmente anche alla vita reale di Polański in quegli anni. Nel 1969, come è noto, ebbe luogo l’orribile eccidio di Cielo Drive: Sharon Tate, l’amata moglie del cineasta, fu brutalmente uccisa insieme a dei suoi amici invitati a cena per mano della Manson Family. La donna si trovava nell’ottavo mese della gravidanza da cui poteva nascere il primogenito del regista, che già allora era molto più che famoso.
In Rosemary’s Baby (uscito l’anno precedente e considerato consacrazione nell’olimpo della regia per Polański), la trama non ricorda direttamente l’eccidio di Cielo Drive, ma rimanda concettualmente ad esso. Il diavolo si insinua nel corpo di una donna, violentandola nel peggiore dei modi e facendo sì che nulla torni mai più com’era prima.

Nonostante il macabro paragone tra fatti privati e filmografia di Polański, questi riuscì dopo anni a dimostrare che sì, potevano esserci sconcertanti punti in comune, ma era anche capace di indagarsi dolorosamente da solo, senza farlo fare a chi quelle cose non le aveva vissute sulla propria pelle. Con L’inquilino del terzo piano, Polański si mette a nudo attraverso la progressiva frammentazione dell’identità del protagonista, e facendo ciò frammenta anche la sua oramai distrutta identità. Trelkowski non sa più chi è, crede di saperlo all’inizio, ma la maschera cadrà prima di subito. Un uomo strano, non capito, forse traumatizzato ma soprattutto sofferente, si riconoscerà in maniera a dir poco inquietante nell’inquilina che aveva precedentemente occupato l’appartamento al terzo piano di un palazzo dove ora alloggia lui.

La ragazza aveva scelto di porre fine alla sua esistenza buttandosi giù dalla finestra. Lo scontro col suolo però non le aveva concesso subito la beatitudine eterna, bensì un’orrenda agonia in ospedale, seguita da una dipartita straziante.
Polański in questo film è formidabile: come protagonista – e allo stesso tempo regista – sceglie di farci leggere in maniera intima il suo rapporto con se stesso, col suo cinema, con le sue tematiche e con le innumerevoli paranoie.
Lo stile registico è di certo riconoscibile, però non in maniera plateale: è infatti emblematico il focus che la cinepresa mette nei dettagli.
Più nello specifico: in una scena del film, Polański sta camminando insieme a Isabelle Adjani, che qui interpreta Stella, grande amica dell’inquilina suicida Simone. I due sono ripresi di schiena, in una lunga scena non più affine ai metodi canonici moderni (ossia montaggi veloci composti da scene che si rincorrono urlando a degli spettatori ormai alienati di non perdere l’attenzione). La macchina da presa rimane ferma, mentre la figura intera diviene a poco a poco campo lungo; tutto bene fino a qui, se non fosse che il passo di Trelkowski è strambo, arrivando a “scoppiare” in piccoli spasmi tradotti in saltelli, assolutamente inappropriati per quel momento della narrazione. Questa è l’essenza della poetica della trilogia. Senza soffermarci nelle più grandi dichiarazioni contenutistiche ed estetiche, sforziamoci di guardare un dettaglio lontano, quello più importante.

Polański ammette, in quella perturbante camminata, l’insicurezza identitaria del personaggio che interpreta: come in tutta la trilogia, si tratta di persone che la follia l’hanno sempre avuta in mente, solo che, reprimendola o addirittura non guardandola neppure, non l’avevano mai fatta sbocciare. Questo almeno fino al momento in cui il regista non ha deciso di dirigere dei lungometraggi per raccontare queste assurde (ma necessarie) storie.

I personaggi polańskiani sono come delle aree recintate, mai rappresentati come mondi a tutto tondo. Sono umani che seguono uno schema, che sia di un trauma mal gestito o di una vita inusuale ed insoddisfacente, e alla fine cedono inevitabilmente al negativo, al buco nero, all’abisso.
Repulsione, L’inquilino del terzo piano e Rosemary’s Baby sono tappe di un lungo viaggio nelle menti dei personaggi, in quella del regista e anche nella nostra. La scelta squisita di annettere a tutto ciò la diretta connessione con l’appartamento è il completamento del perfetto trittico.
Non sono abitazioni normali, ma uno specifico tipo, quelle che stanno sempre in un condominio, e sempre in città. Le persone che vivono in appartamento dovrebbero sentirsi più vicine che mai al fremito della metropoli e al resto della fervente popolazione di quest’ultima; eppure, come nella più perfetta chiacchierata psico-analitica, si giungerà in fretta alla conclusione che più si è vicini agli altri e circondati da stimoli, più si rischierà di impazzire. Nella mente del fragile borghese, bastano piccole scintille per far traballare ogni salda certezza.

E così, Polański mette scompiglio ovunque, ponendo la familiare casa come luogo del disagio e l’amore come disturbo orribile, vorticando faticosamente tra fatti e personaggi assurdi, insopportabili ed indimenticabili.
Tre case, tre anime, tre menti: la trilogia dell’appartamento prende per mano lo spettatore accompagnandolo nel degrado della violenta follia, per poi scappare via, lasciandolo solo con quei personaggi fuori di testa, a guardare in faccia quello che non è mai bello guardare, ma soprattutto ad affrontare finalmente se stesso.

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