MUTO
Di Giovanni “Fusco” Pinotti
Agli inizi della sua carriera da regista cinematografico, Vsevolod Pudovkin, stimolato dall’apprendistato con il grande Lev Kulešov e spronato dalla moglie, la teorica del cinema e attrice Anna Zemtsova (qui interprete di una giovane rivoluzionaria), gira La madre (Мать, 1926), tratto dal romanzo omonimo del 1906 di Maksim Gor’kij e destinato a diventare una delle pietre miliari del cinema sovietico.
1905, Russia imperiale. Michail Vlasov (Aleksandr Čistjakov), un bruto alcolizzato e violento, viene arruolato nelle Centurie nere per spezzare con la forza gli scioperi dei lavoratori. Durante uno di questi scioperi, Michail si trova faccia a faccia con il figlio ribelle Pavel (Nikolaj Batalov), e mentre cerca di acciuffarlo un colpo di pistola sparato a casaccio da un compagno di Pavel lo colpisce in pieno, togliendogli la vita. La polizia zarista perquisisce la dimora dei Vlasov, dove il figlio del defunto sta nascondendo le armi utili al movimento operaio. Convinta che la cooperazione con le autorità porterà a una maggiore indulgenza per Pavel, la madre (Vera Baranovskaja) rivela il nascondiglio. La polizia arresta il giovane, il quale, dopo un processo farsa, viene condannato ai lavori forzati. Sconvolta dalla noncurante ingiustizia del sistema e divorata dai sensi di colpa, la madre si radicalizza, prendendo parte al movimento dei lavoratori nella speranza di poter riabbracciare il figlio.

Primo capitolo della “trilogia rivoluzionaria”, La madre risulta essere di grandissimo impatto anche a distanza di novantanove anni dalla sua uscita. Come diversi film di propaganda del periodo, l’opera di Pudovkin non si limita affatto a riprodurre in maniera sterile e asettica gli ideali rivoluzionari della nuova classe politica giunta al potere; anzi, proprio come succedeva nello stesso periodo nei lavori di Ėjzenštejn e di Kulešov, il regista sfrutta a proprio vantaggio i messaggi socialisti per sperimentare tutte le straordinarie potenzialità offerte dal montaggio delle immagini filmate.
Concentrandosi ossessivamente sui primi piani dei volti dei protagonisti della vicenda e sui dettagli di oggetti e corpi, infatti, Pudovkin dimostra da una parte di aver assorbito pienamente la lezione di Kulešov, dall’altra di star spingendo ancora più concettualmente in avanti i concetti del suo maestro. Più che la manifestazione filmica di un approfondito lavoro di ricerca, La madre si presenta piuttosto come un trionfo narrativo, in cui il montaggio, entro cui abbondano le dissolvenze e le sovrapposizioni delle immagini, serve a costruire una narrazione efficace e potente che va al di là della mera propaganda. Dalla costruzione parallela di scene separate al sapiente uso di immagini ricorrenti, Pudovkin riesce a rendere la storia ancor più dinamica, avvincente e drammatica, dando vita a una serie di emozioni intense e profonde.
Una delle notevoli operazioni concettuali attuate dal regista è quella di non esplicitare (o perlomeno, non sempre) i nomi dei protagonisti della vicenda: la Madre, ad esempio, viene identificata con il ruolo sociale, che finisce per rivestire la sua intera identità in quanto protettrice del focolare domestico, apparentemente apolitico. Tutto questo, naturalmente, servirà a rendere più gratificante e meritato lo sviluppo narrativo seguente, che vedrà la Madre ergersi a salvaguardia di nuovi valori, in una straziante scena finale in cui Pudovkin riesce a far esplodere sullo schermo tutta la potenza dello sguardo malinconico e accusatorio della sua attrice, una Baranovskaja indimenticabile; l’inquadratura dal basso della donna, che abbraccia la bandiera rossa (che nel flashforward finale vedremo sventolare sul Cremlino) e avanza senza paura come una sorta di statua della libertà socialista, non è solo un feroce atto di condanna nei confronti della repressione zarista, ma è anche un indimenticabile guizzo di vigore cinematografico conquistato dalla pellicola tramite la meticolosa operazione di “montaggio narrativo” attuata da Pudovkin.

L’identificazione personaggio-ruolo sociale non si limita alla Madre: Pudovkin utilizza questa strategia narrativa per condannare un sistema giudiziario marcio e corrotto fino al midollo. Nella scena in tribunale, durante cui Pavel (futuro cittadino del socialismo e forse per questo dotato di un nome) viene condannato ai lavori forzati, il maestro sovietico sfrutta le didascalie per evidenziare ironicamente l’ingiustizia di chi presiede al processo: ai cartelli recanti le scritte di “rettitudine”, “giustizia” e “pietà”, vengono accompagnate le immagini dei tre giudici, rispettivamente un uomo vano interessato solo ai cavalli di razza, un vecchio mezzo addormentato e un inflessibile burocrate; il tutto, poi, con la presenza del busto dorato dello zar Nicola II alle spalle, un immancabile tocco di classe.
Altra geniale intuizione di Pudovkin è il modo in cui viene adoperata la natura, in particolar modo con l’immagine del lago ghiacciato: il lento disgelo del lago, su cui poi avverrà la tragedia finale, viene associato più volte a situazioni presentate dal film, in modo da far comprendere allo spettatore il progressivo risveglio politico della Madre, non più passiva vittima di abusi domestici e istituzionali, ma parte attiva della rivolta e del cambiamento. Lo sviluppo narrativo di Pudovkin si collega a una tradizione del pensiero non solo bolscevica, ma anche classica – basti pensare all’Atene di Pericle, dove il dialogo attivo tra cittadini trasformava i problemi del singolo (in questo caso, la lotta di una madre per riabbracciare il figlio) in questioni dell’intera comunità (la lotta contro un sistema ingiusto e corrotto).

La madre, come ho cercato di spiegare, è un’opera cinematografica di immortale rilevanza, grazie soprattutto al valore drammatico scaturito dalla sapiente combinazione delle immagini filmate, le quali riescono a trascendere i limiti e le distanze ideologiche e temporali. Il film non è dunque solo testimone schierato di una realtà prerivoluzionaria – come peraltro sottolinea la citazione di Lenin presente all’inizio della pellicola – ma soprattutto un potente dramma umanista che, attraverso i dolori di una singola persona, riesce a farsi intendere da tuttǝ.

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