GLI OSCAR
Di Gianluca Meotti e Riccardo Morrone
Cominciare dalla fine.
Sean Baker, con parti di cast e troupe, sul palco a lanciare un grido di speranza ai e alle filmmaker indipendenti e a tutta l’industria. La consacrazione definitiva di un autore che è l’epitome dell’indie e che anno dopo anno è riuscito ad ottenere riconoscimenti significativi anche nel mainstream. Il cammino di Baker ricalca un po’ quello della sua protagonista, gli anni di dipendenza e poi la rinascita con una poetica sempre riconoscibile e capace di guardare a una parte di umanità a cui pochi si interessano.
Ma il sapore che rimane in bocca dopo la 97a edizione dei premi Oscar può anche essere diametralmente opposto. È stata una cerimonia algida, misurata e che non ha voluto scontentare nessuno, sia nei premi che nella conduzione. Rispetto ad altri anni gli animi dei vinti (e di chi tifava per loro) non si sono troppo scaldati, segno dell’incertezza relativa ai premi di quest’anno. Le battaglie nelle categorie più importanti erano molto serrate, anche per i risultati quasi contraddittori delle premiazioni di categoria nelle ultime settimane. Ma quasi nessuno è tornato a casa a mani vuote (tranne A Complete Unknown [James Mangold, 2024], il vero “sconfitto” se ce ne è uno), con i premi più importanti andati al film meno di rottura e azzardato. La vittoria di Anora (Sean Baker, 2024) e il poker personale di Baker hanno rispecchiato in pieno il tono di questi Oscar. Il film più premiato è quello che mette d’accordo tutti, una commedia romantica di ottima fattura (con riferimenti chiari ad un certo tipo di cinema classico hollywoodiano), con una protagonista in stato di grazia e la consacrazione di un autore fra i più importanti nella contemporaneità. Certo, non ci si doveva aspettare che uno dei film più controversi – come The Substance (Coralie Fargeat, 2024) o Emilia Pérez (Jacques Audiard, 2024) o ancora The Brutalist (Brady Corbet, 2024) – facessero man bassa di statuette, ma la sensazione è stata quella che Hollywood abbia deciso di optare per una scelta più tranquilla, anche in disaccordo con alcuni premiati nelle edizioni passate. E in effetti è difficile non pensare anche ad Emilia Pérez come a uno sconfitto già annunciato, visto che la sua caduta libera a seguito del Gascóngate si è concretizzata in due miseri premi – miglior canzone a El Mal (Clément Ducol, Camille, Jacques Audiard) e miglior attrice non protagonista alla magnifica Zoe Saldaña – a fronte di tredici candidature, e quello che era appena diventato il film straniero più nominato di sempre ne è uscito con le ossa rotte anche nella stessa categoria del film internazionale, superato dal gioiello brasiliano Io sono ancora qui (Ainda estou aqui, Walter Salles, 2024).
È necessario, tra l’altro, fare una precisazione: lo sweep di Anora (cinque vittorie su sei candidature) e il record di Baker, diventato la prima persona nella storia degli Oscar a vincere quattro statuette per la stessa pellicola (ci era riuscito Walt Disney nel 1954 ma con film diversi), non sono risultati epocali o di rottura – come ha detto qualcuno – ma rappresentano più che altro l’apoteosi di una fluttuazione progressiva che ha spostato il focus dell’Academy sulla produzione indipendente. Un movimento questo che aveva già trovato pieno riconoscimento, ad esempio, nei sette premi dati al film sci-fi targato A24 Everything Everywhere All at Once (Daniel Scheinert e Daniel Kwan, 2022) nel 2023, o forse ancora prima con le vittorie dei vari Moonlight (Barry Jenkins, 2016), Nomadland (Chloé Zhao, 2020) e CODA – I segni del cuore (CODA, Sian Heder, 2021), o addirittura con quella di The Artist (Michel Hazanavicius, 2011) nell’ormai lontano 2012. Basti pensare, infatti, che negli ultimi quattordici anni per ben otto volte il vincitore dell’Oscar al miglior film aveva precedentemente ottenuto l’Independent Spirit Award for Best Film, un’eventualità che nei precedenti ventisei anni (da quando il premio agli indipendenti è stato istituito) si era verificata solo con Platoon di Oliver Stone nel 1986. Si può leggere insomma molto chiaramente in tutto ciò il segno di un’industria americana che per far fronte al perdurare di una fase di seria incertezza identitaria e creativa cerca risposte nel circuito degli indipendenti, con l’impellente bisogno di nuove voci autoriali più o meno giovani da assecondare (lo stesso Baker, i Daniels ma anche Damien Chazelle, il più giovane vincitore dell’Oscar alla miglior regia). Il vero capolavoro, in ogni caso, resta quello della casa di distribuzione, la NEON, fondata nel 2017 e detentrice dei diritti di distribuzione negli USA delle ultime cinque Palme d’oro di Cannes. Dopo essersi già resa protagonista nel 2020 con l’epocale vittoria di Parasite (기생충 / Gisaengchung, Bong Joon-ho, 2019) la NEON è riuscita a sfruttare un anno di generale grigiore e indecisione per ripetersi e regalarsi un’altra serata perfetta.
Una menzione la merita anche la storica impresa del film d’animazione lettone Flow – Un mondo da salvare (Straume, Gints Zilbalodis, 2024), un progetto costato appena tre milioni e mezzo di dollari in grado di abbattere la concorrenza della quotatissima produzione Dreamworks Il robot selvaggio (The Wild Robot, Chris Sanders, 2024), diventando non solo il primo Oscar lettone di sempre ma anche il primo film animato interamente europeo a trionfare nella categoria.
Un’altra chiave attraverso cui leggere quest’edizione è quella politica. Al 2 marzo Hollywood non aveva preso una chiarissima posizione nei confronti del nuovo establishment, e questi Oscar non offrono delucidazioni. A partire dalla conduzione molto tranquilla di Conan O’Brien, uno che nei suoi spazi osa molto di più, alla quasi totale assenza di riferimenti a temi politici e sociali. A questi ultimi hanno pensato i vincitori non americani – a vederci un po’ di malizia verrebbe da dire gli unici a non avere conseguenze se attaccano il governo: Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal, collettivo israelo-palestinese che ha vinto miglior documentario per No Other Land (2024), e Hossein Molayemi e Shirin Sohani per il cortometraggio d’animazione In the Shadow of the Cypress (در سایهی سرو / Dar saaye sarv, 2023). Meno incisivo ma comunque coraggioso troviamo lo “Slava Ukraini” di Daryl Hannah gridato prima di presentare il premio per il miglior montaggio. Queste poche testimonianze hanno evidenziato una probabile crisi ideologica di Hollywood nei confronti della politica interna, ipotesi già ventilata dalla mancanza di candidature per film come Civil War (Alex Garland, 2024) e Giurato numero 2 (Juror #2, Clint Eastwood, 2024).
È un’edizione un po’ blanda quella in cui il pettegolezzo più interessante del giorno dopo è Adrien Brody che, prima di salire sul palco a fare il suo discorso di accettazione (il più lungo nella storia fra l’altro: cinque minuti e quaranta secondi), lancia la gomma che stava masticando in mano alla compagna in mondovisione. E la “colpa” della piattezza trova il capro espiatorio nel presentatore: è stato rimpianto Jimmy Kimmel (e già è una notizia), ma non tanto per il ritmo carlocontiesco con cui O’Brien annunciava i presentatori dei premi, ma per una serie di uscite, per chi scrive, noiose anzi che no. Dopo la spettacolare apertura con Ariana Grande e Cynthia Erivo, il monologo iniziale ha appiattito il tutto con battute prevedibili sui film e le sue star, stacchetti musicali che flirtano col ridicolo e da ultimo il ringraziamento ai pompieri di Los Angeles, con alcuni di loro coinvolti sul palco a fare battute e scherzare con gli attori. Fortunatamente però, per noi spettatori italiani qualche brivido non è mancato grazie al continuo punzecchiarsi di Paolo Mereghetti e Federico Pontiggia, uno degli aiuti più efficaci per rimanere svegli fino alle cinque del mattino.
Nota a margine puramente emotiva sul trattamento degli in memoriam. L’Academy ha riservato il sacrosanto spazio a due figure importantissime come Quincy Jones e Gene Hackman, ricordati da Whoopi Goldberg, Oprah e Queen Latifah il primo e da Morgan Freeman il secondo. Dispiace enormemente che un trattamento del genere non sia stato accordato anche a David Lynch, ricordato forse in maniera più efficacie di tutti da Isabella Rossellini vestita di velluto blu e accompagnata da Laura Dern. Da non dimenticare anche l’esclusione di Alain Delon, che ricorda quella di Monica Vitti di qualche anno fa.
Concludiamo ricordando che gli Oscar non sono oro colato, ma una speculazione che può farci intravedere che cosa l’industria americana sia nel momento in cui questa viene formulata, consci però che nello stesso momento in cui crediamo di avere afferrato la realtà questa è cambiata. E quindi giù con altre speculazioni, idee, opinioni controverse per mandare avanti questo stupendo carrozzone che è in moto da novantasette anni e non accenna a rallentare.

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