A REAL PAIN

Questa voce fa parte 16 di 41 nella serie N3 2025

NUOVE USCITE

Il dolore che guarisce

Di Miriam Padovan

A Real Pain (in polacco Prawdziwy ból) segna la seconda esperienza dietro la macchina da presa di Jesse Eisenberg, il quale, dopo il suo esordio con Quando avrai finito di salvare il mondo (When You Finish Saving the World, 2022), si cimenta in una pellicola che unisce il genere road movie a un’intensa buddy comedy, capace di intrecciare tematiche personali e storiche con grande finezza. Il film si presenta come un viaggio a tappe, in cui due cugini statunitensi – David, interpretato dallo stesso Eisenberg, e il vivace Benji, affidato a Kieran Culkin – partono alla scoperta delle radici della loro famiglia, seguendo il sentiero tracciato dalla memoria della nonna recentemente scomparsa. Fin dai primi fotogrammi emerge l’influenza di Woody Allen, soprattutto per la vena ironica e dissacrante che pervade la narrazione. Tuttavia, il film si distingue per la sua capacità di elevare la sceneggiatura: il regista non si limita a raccontare una storia di viaggio, ma costruisce un elaborato intreccio di relazioni e riflessioni, in cui il percorso fisico diventa specchio di un percorso interiore.

Il personaggio di David, pur rappresentando un uomo di successo sia nel contesto familiare che professionale, è ritratto come puntiglioso e insicuro, quasi intrappolato in un’identità forgiata dalle aspettative e dai limiti autoimposti. Al contrario, Benji, interpretato con maestria da Culkin – premio Oscar come miglior attore non protagonista proprio in questo film e attore già acclamato per la sua performance in Succession (Jesse Armstrong, 2018-2023) – incarna quel cugino anticonformista, impulsivo e carismatico, il cui comportamento sfrontato e al contempo profondamente umano diventa catalizzatore per il cambiamento interiore di David. I due personaggi, così diversi eppure complementari, offrono al pubblico una rappresentazione autentica della dicotomia tra il bisogno di ordine e la spinta all’imprevisto, tra la razionalità e l’istinto. Il contributo di Kieran Culkin è fondamentale: la sua interpretazione di Benji riesce a catturare quell’istante in cui la leggerezza si mescola alla disperazione, offrendo uno spaccato di un personaggio che passa in pochi istanti dall’euforia alla depressione. La sua presenza, quasi magnetica, diventa il fulcro attorno al quale ruotano le dinamiche di questo viaggio. L’idea di “tour del dolore” assume così una valenza doppia: da un lato si evidenzia la difficoltà di far propria una memoria così traumatica, dall’altro emerge l’ironia sottile di un viaggio che, pur tentando di onorare il passato, rischia di trasformarsi in un’escursione quasi turistico-culturale. Il regista si concede una sincera riflessione sul concetto di “dolore reale”, tema centrale da cui scaturisce il titolo del film. In una scena particolarmente significativa, durante una cena carica di tensione emotiva, il protagonista dichiara che “tutti abbiamo un dolore”, evidenziando come il proprio fardello esistenziale, pur essendo in apparenza più “piccolo”, non possa essere minimizzato se messo a confronto con i traumi storici dei suoi antenati. È in questo intreccio di emozioni personali e questioni storiche che Eisenberg trova spunti per indagare l’ineffabile complessità delle relazioni familiari e della memoria intergenerazionale.

Eisenberg, nella duplice veste di autore e interprete, si dimostra particolarmente attento nella costruzione dei dialoghi e delle gag, utilizzando una scrittura che coniuga l’ironia tipica del cinema indipendente americano a una sensibilità quasi europea, dove la forma si fa contenitore di riflessioni più profonde. Il film, seppur non si presenti come una rivoluzione in termini di innovazione narrativa, sa sorprendere per la capacità di mantenere il giusto equilibrio tra leggerezza e gravità, tra momenti di spensierata comicità e passaggi di intensa introspezione. Un aspetto notevole è la scelta stilistica di Eisenberg, che regala al film una pulizia formale e una struttura narrativa lineare, ma che non rinuncia a momenti di radicale rottura emotiva. Il ribaltamento spaziale, evidenziato dall’immagine iniziale e finale del volto di Benji – il cui primo piano all’aeroporto, sia all’inizio che alla fine, simboleggia la ciclicità del dolore e della ricerca di sé – è un esempio di come ogni dettaglio venga studiato per trasmettere significati molteplici. La durata del film, contenuta in un’ora e mezza, potrebbe apparire sorprendentemente breve per un’opera che si propone di trattare temi così vasti e articolati. Eppure, questa scelta contribuisce a rendere A Real Pain un’esperienza cinematografica densa e concentrata, in cui ogni scena, ogni dialogo e ogni inquadratura sono pensati per massimizzare l’impatto emotivo senza appesantire eccessivamente la narrazione.

In una miscela equilibrata e al contempo provocatoria, Jesse Eisenberg, con questa seconda prova da regista, conferma la sua attitudine a esplorare tematiche complesse attraverso il linguaggio del cinema, offrendo al pubblico una storia che parla non solo di un viaggio fisico in terre cariche di memoria, ma anche di un percorso interiore volto a riconciliare il dolore con la speranza. Una pellicola che invita a riflettere, a sorridere e, soprattutto, a riconoscere in se stessi la fragilità e la forza necessarie per affrontare le incognite dell’esistenza.

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Autore

  • Padovan Miriam nasce e decide di fare l’artista. Dopo un’infarinatura decisamente disomogenea, pensa di voler diventare una qualsiasi regista indie femminista ma il suo anno da fotografa per matrimoni le fa cambiare subito idea. Inizia a bingewatchare video di Barbero e scopre la sua vera passione: dare aria alla bocca. Approda al DAMS e, dopo essersi guadagnata la fama grazie al suo spaccio di appunti (secchiona e pure sottona), finisce per diventare redattrice di questa rivista.
    Il suo sogno sarebbe continuare a fare quello che fa adesso, ma da pagata: stare seduta sul proprio culo lamentandosi di come gli altri potrebbero fare meglio. Ha una terribile ironia ed i gusti artistici di una sedicenne: un’intellettuale wannabe che ha ancora troppo da imparare per avere un’opinione ma che, tra una cazzata e l’altra, a volte, ha ragione.


     

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