N3 2025

L’OCCHIO CHE UCCIDE

Di Gianluca Meotti 

Fra le più lucide e tragiche ammissioni di colpa che un autore cinematografico abbia mai realizzato. L’ossessione per il controllo della realtà e delle vite altrui diventa l’elemento psicologico (o psicoanalitico) attorno cui Micheal Powell crea un racconto di una bellezza visiva ed etica, con il fine ultimo di essere assolto per la violenza morale intrinseca del suo mestiere; lo fa confezionando un’opera girata in un Technicolor stupendo, come a dire “sì, lo so cosa faccio/facciamo, ma guardate che meraviglia!”.  

Ma L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960) non è solo l’autofustigazione in pubblica piazza del regista inglese: è una riflessione sul mezzo, un vaso di Pandora riempito di tutti i tabù della società inglese all’inizio dei Sixties e delle sue frustrazioni lavorative e una traslazione delle teorie edipiche freudiane. 

Mark Lewis (Karlheinz Böhm) è un cameraman ossessionato dall’oggetto del suo lavoro. Desideroso di diventare un regista, arrotonda fotografando modelle soft-porn. I traumi infertigli dal padre da piccolo (che faceva dei sadici esperimenti sul bambino per poi filmarli) riemergono sotto forma di impulso irrefrenabile ad uccidere donne mentre le riprende con la sua videocamera, a cui fa seguire un continuo riguardare le pellicole dopo ogni omicidio. Psicologicamente instabile ma non divorato dalla follia, cercherà senza successo di resistere a questa tentazione e, benché braccato dalla polizia e supplicato dalla ragazza che ama, troverà solo una via per porre fine alla sua serie di omicidi: con la stessa macchina con cui ha falciato varie vite, deciderà di porre fine alla propria.

Dopo le avventure da cinema-totale con Emeric Pressburger degli anni precedenti, Micheal Powell si ritrova in crisi, soprattutto da un punto di vista finanziario. Gli ultimi film della coppia non erano andati benissimo, e i due erano stati costretti a chiudere la loro casa di produzione. L’approccio di Powell a L’occhio che uccide risente indubbiamente di queste vicissitudini. Recluta come sceneggiatore il crittografo Leo Marks (che si ispira ad Edgar Allan Poe) e crea una Londra cupa e pericolosa, in cui le riprese in Technicolor molto saturo non fanno altro che accentuare la discrepanza che c’è fra l’immagine ed il suo contenuto. La storia di Mark  potrebbe essere quella di tanti altri giovani londinesi del periodo; cresciuti con la guerra e le macerie dei bombardamenti tedeschi in un paese repressivo, dove il seme della follia ha terreno fertile. 

Ma Powell e Marks infittiscono quello che potrebbe essere un film di denuncia sociale donandogli il suo lato più fascinoso, quello metacinematografico. Per Mark la cinepresa è sì uno strumento con cui fermare il tempo ed esorcizzare i traumi, ma allo stesso tempo diventa l’escamotage tecnologico con cui una società in  disfacimento eleva in potenza il proprio gusto di un voyeurismo malato, portando a voler osservare sempre di  più, in un gioco di potere che già pensa le teorie sullo sguardo di Foucault, successive di qualche anno.  

L’ossessività con cui Mark riguarda i suoi macabri “cortometraggi” è da imputare ad una delle caratteristiche  più seducenti del medium cinema: il potere di rendere inoffensive anche le paure più spaventose e i mali invincibili. Le donne riprese si rendono conto di star vivendo gli ultimi attimi della loro vita e nel loro volto appare un orrore unico, che è proprio ciò su cui Mark vuole avere il controllo. Infatti, per lui cinepresa è lo  strumento con cui suo padre (interpretato ingegnosamente dallo stesso Powell) lo torturava da bambino, ed è perciò ovvio che essa sia diventata lo strumento con cui lui sevizia le sue vittime. Tramuta l’avvenimento traumatico in una routine che non lo può toccare. Il cinema risulta essere l’unico strumento con cui riuscire a sopportare la propria vita, anche se questo, però, significa diventare un serial killer. 

Ed è qui che si pone il dubbio morale attorno al quale tutto il film è costruito: la questione di come rappresentare la vita è stata fondamentale nella carriera di Powell, il quale ne ha cercato una risposta definitiva in ogni genere di film. Ma una risposta univoca non esiste, una risposta che vada bene ad ogni latitudine e per ogni tempo; va trovata volta per volta, cercando di non diventare degli assassini.

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Comments

Una risposta a “N3 2025”

  1. Avatar Gianni
    Gianni

    che bel numero<3 l’articolo sull’abbigliamento scritto benissimo!!

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