LA JETÉE
Di Edoardo Sampaoli
I torturatori nei sotterranei
Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas (“Non rivolgerti all’esterno, ma torna in te stesso: all’interno dell’uomo dimora la verità.” Sant’Agostino, De vera religione, XXXIX, 72).
Un millennio e mezzo dopo, nel 1962, Chris Marker ritorna probabilmente su quelle parole e non solo, da cui nasce La Jetée.
Facciamo un passo indietro. Anni Sessanta, Francia. Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol e altri dei Cahiers du cinéma formalizzano il movimento rivoluzionario della Nouvelle Vague. Sulla “riva sinistra”, registi come Agnès Varda, Jacques Demy, Alain Resnais e proprio Marker, più anziani e legati al mondo della letteratura, si immergono comunque nel modernismo di quegli anni.
Marker avvia in questo ambiente una filmografia unica: vero e proprio saggista del cinema, un passato misterioso, una formazione con studi universitari di filosofia, una presenza nella resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale. Egli fu giornalista, viaggiatore e marxista insieme ad André Bazin, colui che lo portò a scoprire il mezzo del cinema.
Nel 1962, alla quinta regia di lungometraggi, nasce La Jetée, lo stesso anno in cui sta girando il documentario Le Joli Mai (1963) in collaborazione con Pierre Lhomme; la contemporaneità dei progetti non è da sottovalutare, ma ci ritorneremo meglio più avanti.
Un’immagine di una piattaforma per vedere gli aerei di un aeroporto. Una scritta nei titoli di testa cita: “Un photo-roman de Chris Marker”. Poi le didascalie ci informano: “Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine della propria infanzia. La scena che, per la sua violenza, lo sconvolse e di cui avrebbe capito il significato solo molto più tardi, si svolse sulla grande piattaforma di Orly, qualche anno prima che iniziasse la Terza Guerra Mondiale.” Un bambino infatti vede una donna, di cui non dimenticherà mai il volto, e la morte di un uomo. Scoppia la guerra. Per le scorie nucleari i sopravvissuti sono costretti a vivere nei sotterranei della città. Qua vi troviamo dei torturatori che sottopongono i sopravvissuti a degli esperimenti. Quasi tutti muoiono soccombendo. Un uomo, il bambino ora grande, sopravvive e viene proiettato nel passato, dove incontra continuamente la donna vista da piccolo, e nel futuro, dove incontra un gruppo di persone. I torturatori ora, raggiunti gli obiettivi, possono e devono liberarsi di lui. Viene inizialmente salvato da quelli del futuro, dotati della stessa abilità del protagonista di viaggiare attraverso il tempo, che gli offrono una fuga. Scappando però anche dal futuro il protagonista cerca di rifugiarsi nel passato, all’aeroporto di Orly, correndo per arrivare a lei, dalla donna dei suoi sogni, ma viene ucciso da uno dei torturatori che l’ha seguito. Cade, morente, davanti agli occhi innocenti di lui stesso bambino.
1. Cinema fisso e la grammatica delle immagini di Chris Marker
Dallo scorrere dei titoli di testa siamo subito informati: “photo-roman”, un fotoromanzo. Il film dunque è un susseguirsi continuo di circa quattrocento immagini fisse, senza movimento, tradendo il cinema. Il cinema è immagine in movimento, immagine però rimane, il movimento è meccanico, fittizio e ipotetico, illusorio. Marker smaschera ciò negando il movimento illusorio, decidendo di scardinare il cinema dalle basi con un montaggio di immagini fisse. Il fotogramma è gelato, eternamente fermo, ma è proprio ciò che evoca l’essenza della vita, impedita ma sempre sul punto di muoversi. Ma il fotogramma è anche critica: tornando all’esperienza contemporanea di Le Joli Mai con Pierre Lhomme, il documentario si sviluppa intervistando persone sulle loro considerazioni al termine della guerra di Algeria. Qui ne viene uno spaccato di indifferenza e illusione di libertà degli intervistati a cui non sembra tangere la realtà della guerra. Marker si fa cinico e pessimista su una società che è quella dell’individualismo, del capitalismo ma soprattutto dei consumi, della televisione che porta al divoramento delle immagini. La Jetée in questo contesto sociale è controcorrente, si lascia contemplare; laddove il film standard sfugge agli occhi eccitati dello spettatore, ne La Jetée Marker medita sulle immagini fermando il rigetto visivo, sospendendo continuamente lo spettatore assuefatto.
Marker, regista della parola, affida tutto alla voce narrante che detiene il valore saggistico dell’opera, le immagini si svelano con il linguaggio. Rispetto ai viaggi temporali tra passato, presente e futuro il narratore si fa onnisciente, travalica il tempo e lo spazio, rimanendo comunque colui che lega, costruisce una continuità, un senso.
Il genere con cui sceglie di procedere è la fantascienza, che diviene puro pretesto per fare un discorso più ampio sulla memoria, tra filosofia e psicoanalisi. È nei recessi dell’interiorità, oltre ogni concezione di spazio e tempo, in una dimensione di ricostruzione mentale che è una non-verità, fittizia forse nell’accostamento di memorie che non coincidono ma che si fondono continuamente, diventando in ultima istanza la verità, che La Jetée naviga.
2. Memoria, ucronia e il tempo di Bergson
Riprendendo la trama, nei sotterranei i torturatori sottopongono esperimenti ai “prigionieri”, facendoli morire uno dopo l’altro tranne il nostro protagonista. È qui che comprendiamo il loro ruolo: i torturatori indirizzano i pazienti nel passato, unica realtà a cui aggrapparsi per resistere all’angoscia del presente, per prepararli a essere proiettati nel futuro, unica realtà in cui ancora concretamente si può vivere. Qui Marker attinge a Bergson, soprattutto da Introduzione alla metafisica (Introduction à la métaphysique, 1903; trad. it. 1909), in cui il filosofo francese classifica il tempo come quantitativo e qualitativo. Il tempo quantitativo è quello che considera gli istanti come due punti nello spazio, e di un’azione calcola il punto di partenza e di arrivo. Il tempo qualitativo è quello che considera la qualità di ciò che intercorre tra i due punti. Il protagonista appartiene al secondo, in cui la memoria si ripete all’infinito sulle immagini della donna che tornano ossessivamente esperimento dopo esperimento e, più in generale, tornano le immagini che hanno avuto su di lui un impatto emotivo significativo, mentre i torturatori appartengono al primo, il tempo quantitativo, spedendo il protagonista in due punti spazio-temporali e tentando di avere il controllo del risultato.
Al procedere degli esperimenti il protagonista viene sempre più travolto: “Al decimo giorno di esperimenti cominciano a sorgere delle immagini, come delle confessioni. Una mattina del tempo di pace. Una stanza del tempo di pace. Una stanza vera. Bambini veri. Uccelli veri. Gatti veri. Tombe vere.” (Fig. 1) Il passato diviene costantemente presente e l’obiettivo è quello di ri-attualizzarlo rivivendolo, e così succede.
Il passato diviene materia del presente, le immagini divengono realtà, la realtà esterna non è più solo un ricordo, ma vera, fatta di stupore per un ritorno agli oggetti quotidiani. Stavolta qui Marker richiama Sartre, del quale era stato studente all’università, mettendo in scena il teatro della coscienza. Non connette più la realtà del pensiero al mondo esterno, ma quest’ultima può annientarlo e rigenerarlo. Non c’è più differenza tra esistenza del pensiero ed esistenza della realtà, l’uno si riversa sull’altro in una dialettica che intercorre fino alla fine dell’opera. Così in questa dialettica il protagonista genera una dimensione ucronica in cui vivere. Il tempo è la chiave del film, è la dimensione temporale nella quale ci troviamo di fronte continuamente, gli spazi ricorrenti in tutta l’opera sono marchiati dal tempo, la Parigi distrutta, i sotterranei con i suoi segni sui muri e le statue in rovina, ma anche il museo di storia naturale in uno dei ricorsi al passato-realtà, con tutti animali imbalsamati; tutto dimostra i segni inevitabili del passare inesorabile del tempo (Fig. 2).
In tutta l’opera c’è un solo momento in cui abbiamo un movimento, che ho deciso di affrontare in questo capitolo anziché il primo perché ancora una volta si intreccia con la filosofia bergsoniana. Parliamo della riflessione tra il procedimento analitico e sintetico. Bergson dice che la nostra realtà non è composta da immagini fisse, anche l’istante è un frutto di elaborazione mentale. Il più piccolo movimento consiste in un’infinità di movimenti più piccoli. Dividere un flusso in elementi distinti è analisi (procedimento analitico), muoversi dentro il flusso è campo dell’intuizione (procedimento sintetico).
Marker per tutto il film porta avanti un procedimento di tipo analitico, tranne in una scena in cui c’è un leggero movimento della donna che accenna un sorriso (Fig. 3); qui dall’analisi ci spostiamo all’intuizione. È l’amore che permette al personaggio di trascendere anche le sequenze di immagini fisse, vivendo al di fuori del tempo e della memoria. È probabilmente un sogno, e questo, insieme all’amore, porta il senso della vita e ci riporta a vivere, come d’altronde la semiotica della scena che è l’unica a ritornare al kínesis, al movimento, che ci riporta al cinema tradizionale.
3. Simbologie: l’occhio e i bambini ne La Jetée
Il film si carica di simbologie, dal profilmico – con elementi che ritornano costantemente, come i bambini e l’occhio di cui parlerò – al filmico, come il montaggio che ricorda gli accostamenti di matrice ėjzenštejniana.
L’elemento infantile ritorna continuamente. Basti anche solo pensare agli incontri con la donna, che è il desiderio sessuale di lui bambino ma ha le sembianze proprie del ricordo, nonostante gli anni passati. Lo stato infantile è difatti quello più staccato dall’organizzazione matematica del tempo, è privo di progettualità, non c’è ricordo. E così è il rapporto che vivono, come testimonia una didascalia: “Sono senza ricordi, senza progetti. Il loro rapporto si costruisce semplicemente attorno a loro e ha, come unico riferimento, il gusto del momento che vivono […].”. I bambini sono anche presenti sulla scena, come il bambino stesso del protagonista che appare all’inizio, oppure i bambini intorno al protagonista e alla donna in uno dei passaggi del passato (Fig. 4).
Il rapporto invece con l’occhio è di natura più complessa, intercorrendo continuamente tutta l’opera in un susseguirsi di metafore. All’inizio del film vediamo i primi prigionieri sottoposti agli esperimenti che poi moriranno, tutti con occhi sbarrati in un gioco di luci e ombre (Fig. 5) che si presta all’espressionismo; gli occhi costantemente al buio sono metafora della follia nello scrutare il tempo, nell’addentrarsi nelle memorie interiori, impossibilitati nel guardare i segni del tempo.
Quando appare in scena il nostro protagonista, possiamo ben vederne gli occhi, non ancora alterati dai salti temporali. È quando inizia gli esperimenti che vediamo coperti solamente gli occhi (Fig.6): la visione diventa interiore, l’occhio è ora interno, a ritornare a guardare il passato. Ma è anche nelle sequenze del futuro, dove incontra il gruppo di persone, che ritorna il simbolismo dell’occhio, dove il protagonista è con gli occhiali da sole (Fig.7), ennesimo ostacolo della visione chiara e allusione a una non conoscenza del mondo in cui si trova che potrebbe portarlo alla pazzia; infatti, nel passato da lui conosciuto non porta mai gli occhiali.


4. L’eterno ritorno di Nietzsche e quel finale paradossale
Bergson non è l’unico filosofo nello stratificato testo di Marker. È anche Nietzsche che è presente in quel finale circolare che porta a un loop continuo. Lui corre verso la donna amata, cadendo a terra morente davanti agli occhi di lui stesso bambino. Quella visione della ripetizione continua prende a piene mani dall’eterno ritorno nietzschiano, in cui non c’è via di fuga alla ciclicità degli eventi. Forse qui prende due visioni opposte, al contempo valide entrambe: da una visione fredda dell’incontro con la propria morte, che è già presente a priori, un labirinto circolare drammatico da cui la morte è preannunciata e lo scorrere degli eventi è in semplice funzione della ripetizione. O potrebbe essere resistenza, continuare a resistere anche se la morte è l’unica fine (ma anche inizio), resistere per il sogno di trasformare la realtà in altro (anche se rinchiusi nel loop); nel dolore l’amore vive, esiste e resiste. Forse vale la pena di fare quella corsa ancora una volta, nel tentativo di rompere la ciclicità.
La Jetée è un’opera unica nel suo genere, e non solo. Sessantatré anni fa Chris Marker ci rinchiudeva in un labirinto della mente disaminando e sezionando la memoria in tanti frammenti, immobili ma pieni di vita e movimento al tempo stesso, creando un testo su cui saggisti, critici e studiosi hanno dedicato pagine e pagine non esaurendosi mai, considerando la durata di soli ventotto minuti del film. Il cinema dopo La Jetée non è stato più lo stesso e mai potrà esserlo, indelebile nel tempo come quella Parigi dopo la guerra e quei muri dei sotterranei.
“Capì che non si sfugge dal tempo.”
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