LA STORIA DEL CINEMA FEMMINISTA A GRANDI LINEE
Di Miriam Padovan
Il cinema, sin dai suoi albori, ha raccontato il mondo attraverso una lente prevalentemente maschile. Per decenni, le donne sono state relegate a ruoli secondari: muse, oggetti del desiderio, madri devote, ma raramente soggetti attivi con una propria voce. Eppure, nel corso della storia il cinema femminista ha trovato il modo di emergere, sfidando stereotipi, sovvertendo narrazioni patriarcali e aprendo nuove strade per la rappresentazione della donna sul grande schermo.
Negli anni Venti e Trenta, registe come Alice Guy-Blaché e Dorothy Arzner furono pioniere di un cinema che metteva al centro le donne, sfidando le convenzioni del loro tempo e dimostrando che il cinema non era un’esclusiva maschile. Guy-Blaché, tra le prime registe della storia, esplorò temi come l’emancipazione e l’autonomia femminile in film come La Fée aux choux (1896), considerato uno dei primi film narrativi della storia del cinema. Dorothy Arzner riuscì a imporsi a Hollywood, diventando l’unica donna regista dell’epoca del cinema classico americano e dirigendo film come La falena d’argento (Christopher Strong, 1933), con Katharine Hepburn, che affrontava il tema della donna indipendente in una società patriarcale. Ovviamente, però, le due registe furono presto messe ai margini con l’istituzionalizzazione di Hollywood: con l’affermarsi della produzione cinematografica industriale, il ruolo femminile dietro la macchina da presa divenne sempre più raro.
Fu negli anni Sessanta e Settanta, con l’onda lunga del femminismo di seconda generazione, che il cinema femminista iniziò a strutturarsi come un vero e proprio movimento. Le registe iniziarono a interrogarsi su come il cinema non solo raccontasse le donne, ma le costruisse visivamente. Film come Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman offrirono un nuovo sguardo sulle vite delle donne, smontando le narrazioni tradizionali e rivelando la quotidianità femminile con una precisione e un’intimità senza precedenti. Akerman, attraverso la minuziosa rappresentazione della routine domestica e della solitudine della protagonista, trasformò il tempo cinematografico in un potente strumento di critica sociale, mettendo in discussione il ruolo della donna nella società e il modo in cui il cinema stesso aveva contribuito a perpetuare stereotipi e dinamiche di potere patriarcali.
L’Italia ha avuto un rapporto complesso con il cinema femminista. Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, la rappresentazione delle donne oscillava tra la sensualità esagerata e il sacrificio materno. Il volume di Dalila Missero Women, Feminism and Italian Cinema: Archives from a Film Culture (Edinburgh University Press, 2021) analizza questa fase, mettendo in luce come le donne non fossero solo spettatrici passive, ma anche protagoniste nella costruzione di un nuovo linguaggio cinematografico, sfidando attivamente i codici narrativi tradizionali e proponendo un punto di vista alternativo sulla condizione femminile.

Questo processo si è manifestato attraverso film che hanno dato voce a soggettività femminili fino ad allora marginalizzate, come L’amore coniugale (1970) di Dacia Maraini, che esplora la sessualità e il matrimonio da una prospettiva femminista, o Ritratto di una giovane in fiamme (Portrait de la jeune fille en feu, 2019) di Céline Sciamma, che mette in scena un desiderio femminile slegato dallo sguardo maschile. Inoltre, registe come Liliana Cavani e Lina Wertmüller hanno dimostrato come il cinema potesse essere un mezzo di riflessione politica e sociale, ridefinendo i ruoli di genere e le relazioni di potere attraverso opere provocatorie e sovversive.
Da un lato, i movimenti femministi degli anni Settanta e Ottanta chiedevano una rappresentazione più autentica e complessa delle donne sullo schermo, promuovendo narrazioni che enfatizzassero l’indipendenza e l’autodeterminazione femminile. Dall’altro, il cinema mainstream italiano continuava a perpetuare ruoli stereotipati, dove le donne erano spesso relegate a figure decorative, oggetti di desiderio o madri devote. La città delle donne di Federico Fellini (1980) è un esempio emblematico di questa tensione: sebbene il film affronti le tematiche femministe, lo fa attraverso una prospettiva maschile, con il protagonista che esplora il mondo del femminismo da un punto di vista estraneo e spesso ironico. Questo approccio ha generato critiche tra le attiviste dell’epoca, che vedevano nell’opera una distorsione del messaggio femminista piuttosto che un autentico tentativo di rappresentazione della lotta per l’uguaglianza di genere.

Con l’ingresso di nuove autrici nel panorama cinematografico internazionale, il cinema femminista si è evoluto, sperimentando forme narrative e linguistiche diverse, introducendo tecniche innovative che hanno permesso di decostruire gli stereotipi e ridefinire il ruolo della donna nel cinema. Registe come Agnès Varda hanno sperimentato il linguaggio documentaristico per dare voce a esperienze femminili autentiche, mentre Sally Potter, con film come Orlando (1992), ha sfidato le convenzioni di genere attraverso una narrazione non lineare e simbolica. Inoltre, l’uso del punto di vista soggettivo e di una fotografia intimista ha permesso a molte autrici di creare opere che riflettono il vissuto femminile con un’inedita profondità emotiva. Registe come Jane Campion, con Lezioni di piano (The Piano, 1993), hanno riscritto il ruolo della donna sullo schermo, mostrandone desideri e ambiguità senza filtri maschili.

In Italia, il cinema ha iniziato a esplorare con più attenzione le voci femminili, anche se la strada è rimasta in salita (basti pensare alle critiche riservate a C’è ancora domani di Paola Cortellesi).
Sofia Coppola, con il suo female gaze, ha proposto un’estetica unica e riconoscibile, caratterizzata da un’atmosfera sognante e malinconica, colori pastello e un’attenzione minuziosa ai dettagli visivi e sonori. I suoi film, come Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999) e Lost in Translation – L’amore tradotto (Lost in Translation, 2003), esplorano la femminilità attraverso un linguaggio delicato e intimo, privilegiando la soggettività delle protagoniste e ribaltando la tradizionale oggettivazione femminile.
Coppola utilizza il silenzio, l’isolamento e la musica come strumenti narrativi per immergere lo spettatore nella psicologia dei suoi personaggi, creando un’estetica che è al tempo stesso evocativa e profondamente empatica.


Negli ultimi anni, il cinema femminista ha smesso di essere solo una questione di rappresentazione per diventare anche una lotta per la parità dietro la macchina da presa. Film come Barbie (2023) di Greta Gerwig e Povere creature! (Poor Things, 2023) di Yorgos Lanthimos rielaborano l’immaginario femminile, sfidando il modo in cui le donne vengono viste e raccontate. Il fenomeno dell’ipersessualizzazione e della marginalizzazione delle attrici mature sta lasciando spazio a narrazioni più complesse e sfaccettate. Attrici come Demi Moore e Meryl Streep stanno riscrivendo le regole dell’invecchiamento nel cinema, mentre registe emergenti come Savanah Leaf e Molly Manning Walker stanno dando voce a una nuova generazione di donne.
La storia del cinema femminista è ancora in divenire. Se un tempo il dibattito riguardava la presenza femminile nello schermo, oggi si combatte per un reale cambiamento nelle strutture produttive dell’industria cinematografica. Le donne non vogliono solo essere raccontate, vogliono raccontare e lo vogliono fare come vogliono loro. Il cinema femminista continua a essere il mezzo attraverso cui far sentire la propria voce, oggi più forte che mai.
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