TECNICA
Vittorio De Seta e “Isole di Fuoco”
“Un documentario breve diviene poesia ermetica”
Di Sibilla Bissoni
Vittorio De Seta nasce a Palermo nel 1923. Proviene da una facoltosa famiglia aristocratica, ma il suo interesse da artista e documentarista qualche anno dopo sarà immediatamente volto verso le classi meno abbienti e, non di minore importanza, verso la sua terra d’origine.
Opera rappresentativa della carriera del cosiddetto “padre del documentario italiano” è sicuramente Isole di fuoco (1954), della durata di 11 minuti e vincitore come miglior cortometraggio documentario al Festival di Cannes del 1955.
L’ambiente è l’isola di Vulcano, appartenente all’arcipelago delle Eolie in Sicilia.
De Seta approda lì nella stagione invernale, subito dopo l’alba, con la sua macchina da presa a bordo di una normale barca che ogni giorno naviga verso quel luogo austero e minaccioso, traghettando abitanti, lavoratori e visitatori.
De Seta compie un atto rivoluzionario, che verte verso la poesia, voltando le spalle alla narrazione documentaristica classica; lo fa eliminando la voce narrante.

All’inizio della pellicola troviamo l’unica descrizione esplicita del racconto sotto forma di brevissima didascalia: De Seta scrive che il fuoco in questi luoghi “cova ancora nelle viscere della terra e minaccia la vita dell’uomo”, aggiungendo che “gli abitanti poco a poco le abbandonano e migrano verso altri continenti”. Non è necessario dire altro allo spettatore.
Benché nel corto non si veda in maniera didascalica una migrazione di abitanti dell’isola stanchi di vivere in uno dei luoghi più rurali ed inospitali dell’Italia del boom economico, ciò che mostra De Seta è più che sufficiente per comprendere la quotidianità delle persone che risiedono sull’isola di Vulcano.
Si tratta di un racconto breve, che parte al mattino e si conclude il mattino seguente.
L’evento di svolta? Una violenta eruzione notturna del vulcano.
De Seta, con un formato 35mm standard, racconta in una decina di minuti una storia completa, scevra dalla finzione della fiction, ma ricolma di tensione e verità.
Emblematica la scena iniziale, girata con cinepresa a spalla su di una traballante imbarcazione. Qui il reportage nudo e crudo è mescolato con riprese cinematografiche poco popolari nei documentari maggiormente “classici” per l’epoca.

Il racconto che inizia a costruire De Seta ci fa entrare immediatamente con lui sulla barca, ondeggiando insieme al cineocchio, tra i siciliani che stanno partendo e andando verso il largo; la luce dell’alba è incerta e la palette fredda dei colori ci fa percepire l’inverno sulla pelle.
De Seta fa scelte interessanti anche nel montaggio: inizialmente segue in maniera quasi placida gli eventi, abbracciando uno stile calmo. La giornata sull’isola però continua e tutti verso sera cercano di correre in casa il prima possibile, perché il vulcano si prepara ad una usuale eruzione, questa volta particolarmente violenta e in concomitanza con una furiosa tempesta.
Qui il ritmo diventa molto più concitato, concettualmente legato al primordiale contrasto tra fuoco e acqua, attraverso un impeccabile montaggio alternato tra il vulcano che erutta con la lava che cola tra le pendici nere delle montagne, le grandi onde che si riversano sulle rive e sugli scogli acuminati, mescolandosi con una fitta pioggia, e gli uomini che rincasano prendendo in braccio i propri bambini e guardando negli occhi le loro famiglie.
I dialoghi e le parole umane non esistono in Isole di fuoco, sarebbero inutili per De Seta. Il rumore del fuoco e del mare bastano e avanzano per udire dalla voce dei veri protagonisti del corto ciò che quest’ultimo vuole trasmetterci.
Un’eccezione però c’è: il canto popolare di un coro femminile, che nel cuore della notte si innalza coprendo il forte brontolio dell’eruzione. De Seta era amante del folklore, in particolare di quello siciliano, e per questo inserisce un chiaro simbolo delle radici ferree di quei temerari che decidono di non emigrare verso altri continenti, gli isolani che non rinunciano alla loro Terra di Fuoco.

Il regista, con una tecnica innovativa, riesce a far immergere lo spettatore in una situazione più unica che rara, mostrando il contrasto tra il boom economico italiano degli anni Cinquanta e uno dei luoghi “esclusi” e non considerati all’epoca, dove la ruralità della vita abbracciava ancora completamente gli abitanti, facendoli fuggire o convincendoli ancora di più a rimanere stabili nella propria terra.
Non troviamo un narratore che ci spiega, come all’epoca dei cinegiornali fascisti, ciò che accade, con annesse informazioni d’ogni sorta e relative cause e conseguenze, ma solo una breve didascalia seguita da una narrazione muta e tripartita (nel senso più classico del termine; quindi dotata di inizio, svolgimento e conclusione).
Tutto questo fu sufficiente per trasformare un frammento di un’Italia dimenticata in un commovente ritratto di vita, un documentario breve in una poesia ermetica.
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