VENEZIA
Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto
Di Alessandro Capecci
Durante e dopo l’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia si è parlato, in merito a The Testament of Ann Lee (Mona Fastvold, 2025), come di un controcampo di The Brutalist (Brady Corbet, 2024), uno sguardo speculare, antico e femminile rispetto a quello novecentesco e maschile della storia di László Tóth. Ma nonostante l’indubbia esistenza di elementi comunicativi tra di loro – il viaggio dei protagonisti nelle terre americane, l’inseguimento di un ideale personale nel corso della propria esistenza, la firma della regista in entrambe le sceneggiature e la scelta della pellicola 70mm – sarebbe estremamente riduttivo leggere il nuovo film di Mona Fastvold solo attraverso quello del marito Brady Corbet, vincitore del Leone d’argento a Venezia 81.

The Testament of Ann Lee è stato infatti il lavoro della Biennale Cinema 2025 che forse, meglio di ogni altro – con una naturale eccezione per The Voice of Hind Rajab (صوت هند رجب, Kaouther Ben Hania, 2025) –, è riuscito a parlare con limpidità e senza didascalismi alla nostra contemporaneità. Madre Ann Lee, interpretata da Amanda Seyfried nel ruolo migliore della sua carriera dopo Mamma mia! (Phyllida Lloyd, 2008), è una donna estremamente audace, proiettata con tutta la propria essenza verso un obiettivo unificante, fiera come una bandiera araldica nonostante gli stravolgimenti storici e i tentativi di sottomissione da parte degli uomini. Indipendente dalla carne e nello spirito, Ann Lee è una carismatica leader religiosa che predica il proprio messaggio di fede non attraverso la paura, la forza o il populismo, bensì attraverso la pace e la gioia del corpo. Nonostante la donna settecentesca spenga e consegni all’ambizione qualsiasi tipo di pulsione sessuale, la sua è una storia profondamente corporea: ne è ben cosciente la Fastvold, che segue con la macchina da presa e in lunghi piano-sequenza le cerimonie religiose degli shakers, fatte di danze spasmodiche, sospiri e grovigli di masse. Così, il risultato ottenuto sullo schermo è immagine ipnotica, visivamente potente e sontuosa nella messa in scena.

Ciò che più dialoga della storia di Madre Ann Lee con la nostra contemporaneità è il suo carattere squisitamente politico, ambiguo nella lettura seppur interessante. La comunità degli shakers da lei guidata sostiene infatti, con consapevolezza o senza, una pura forma di anarchia collettiva: i suoi seguaci non rispondono delle regole imposte dalla legislazione del tempo e soverchiano l’impedimento di pronunciare le proprie preghiere. Con violenza vengono dunque esiliati dall’Inghilterra e costretti a migrare verso gli Stati Uniti, non ancora attraversati dai moti della Guerra d’indipendenza. È nelle campagne americane che fondano i loro villaggi religiosi, costruiti sugli ideali della fede, della rinuncia agli impulsi sessuali e della proibizione della proprietà privata. Il loro stile di vita è libero e pacifico, nato su quella che da loro viene definita “una Terra promessa”, ma di fatto non appartenente a nessuno prima di essi. La fine del nomadismo della comunità shaker non rappresenta una conquista coloniale, bensì un raggiungimento non violento.
I raggiungimenti degli oppressori, al contrario, si compiono nella storia solo attraverso la violenza e l’umiliazione. Così, mentre la Guerra d’indipendenza incendia i futuri Stati Uniti, Madre Ann Lee e i suoi shakers scoprono di trovarsi su una terra da espropriare, conquistare ed annettere. Con una sequenza nell’ultimo atto che neutralizza ancor di più la distanza storica che intercorre tra la narrazione filmica e la nostra contemporaneità, alla loro resistenza non violenta si risponde con il sangue, la tortura e la mutilazione. Gli shakers, ciononostante, sopravvivono, e con essi il testamento di pace e resilienza di Madre Ann Lee, memento del vigore che può sprigionare la fiducia in un ideale sincero, capace di dare forza e senso alla nostra intera esistenza.
The Testament of Ann Lee di Mona Fastvold uscirà al cinema nel 2026.

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