ONIBABA – LE ASSASSINE

Questa voce fa parte 4 di 34 nella serie N7 2025

FIL ROUGE: HALLOWEEN

Di Edoardo Sampaoli

Folklore, demoni, sessualità, povertà, gelosia e guerra: in breve, Onibaba – Le assassine (Onibaba / 鬼婆, Kaneto Shindō, 1964).

Partiamo da una breve contestualizzazione: Onibaba, tradotto “demone strega”, è una oni (demone) del folklore giapponese; si tratterebbe di una donna anziana, raggrinzita, innocente alle apparenze, ma che uccide e si ciba di esseri umani. Sono tante le storie sulla nascita di Onibaba e tra le più famose e tramandate c’è quella di una famiglia nobile alla cui figlia di cinque anni, ammalata gravemente, per guarire servirebbe un fegato di un bambino non nato, su consiglio del medico. A partire alla ricerca di questo fegato sarà la nutrice, che a sua volta ha una figlia, a cui lascia un amuleto prima di partire. I mesi passano e la nutrice non riesce a trovare nessuno, così decide di ritirarsi in città, attendendo l’arrivo di una donna incinta. Dopo anni, ormai anziana, arriva finalmente l’occasione e la nutrice appende la vittima al contrario, strappando il fegato al feto ma accorgendosi in ritardo che la vittima possiede l’amuleto da lei regalato. L’anziana, non sopportando il dolore, impazzisce, diventando un demone che da quel momento si ciba dei passanti.

Ma oltre a questa breve premessa, serve un’ulteriore e ultima contestualizzazione: Onibaba di Shindō si ispira anche a un’altra fiaba buddhista, che prende il nome di Una maschera di carne spaventa una moglie. La favola racconta di una donna che, presa dalla gelosia per la nuora, indossa una maschera da demone per spaventarla, così da impedirle di incontrare il suo amante. Ciò non servirà a nulla, perché l’amore della nuora per l’amante sarà così grande da farle superare la paura del presunto demone. Buddha punirà la donna, legandole in modo permanente la maschera al viso. 
Da qui abbiamo delle solide basi per provare ad affrontare Onibaba.

Siamo nel Giappone del periodo Nanboku-chō, in tempi di guerra. Una donna (Nobuko Otowa, moglie del regista) e sua nuora (Jitsuko Yoshimura) vivono immerse in un campo di canne di giunco e per sopravvivere uccidono i soldati che vi si perdono dentro. Rivendono poi le armature dei cadaveri dei soldati a un mercante in cambio di cibo. Un giorno, scappato dalla guerra, torna Hachi (Kei Satō), un vicino che comunica loro la morte del figlio e marito delle due. Hachi appoggia gli occhi sulla giovane nuora, ma la donna si oppone fermamente, arrivando a fingersi un demone per spaventarla e fermarla. 

Onibaba è una storia di orrore, ma prima ancora di essere orrore in senso finzione-folclore, è orrore sociale. La guerra, che qui non si vede mai ma si sente in ogni secondo, è la devastazione fisica e spirituale dell’essere umano. 
Difatti, Onibaba si divide tra i due piani, per l’appunto quello fisico e quello spirituale. Possiamo individuare, nella prima parte del film fino a circa metà, la concentrazione sulla precarietà fisica: la routine delle donne nell’uccidere per il cibo, lo scambio tra le armature rubate ai cadaveri e il miso, le cene scarse, i corpi che iniziano a essere marcati da questa guerra. 
Nella seconda parte, invece, si analizza l’impatto della guerra a livello spirituale. La donna non vuole che la nuora vada con Hachi non tanto perché era la moglie di suo figlio defunto, ma principalmente perché non vuole restare sola; da qui, gelosia e egoismo prendono il controllo sulla donna.
 

È importante notare quanto sia suggestivo il campo di canne di giunco, un labirinto che non permette di vedere oltre, metaforicamente e non, con delle piante che, con il loro primordiale aspetto, riportano gli esseri umani a essere immersi nella solitudine, nella natura. Questo campo, con il movimento delle sue canne, ha il potere di rendere il luogo mistico, e da qui Shindō costruisce il suo impianto onirico, sospensione del tempo e dell’azione.
Il luogo, le vicende, sono in un luogo altro, non altro perché diverso da noi, ma altro proprio perché universale.
Il campo è il mondo fisico con le sue insidie e i suoi segreti, rassicurante e spaventoso al tempo stesso; le due donne, per l’appunto senza nome, sono l’umanità, la giovane e la vecchia, l’innocente e la peccatrice, la sessualità giovanile e la stanchezza della vecchiaia, l’amore e la gelosia.

Quella in cui ci fionda Shindō è un’umanità svuotata dove, in modo intelligente, il regista riesce a fare discorsi ben approfonditi sulla sessualità, con la storia tra la nuora e Hachi dove la carne pulsa dal desiderio carnale sullo schermo, con una messa in scena anche integrale, pressoché inedita in un Giappone ancora molto conservatore da questo punto di vista. Vengono trattate anche la povertà e la morale, qui messa a fuoco dallo scambio omicidio-cibo, sopratutto quando a compierlo sono due donne, simbolo da sempre di purezza, fragilità e delicatezza. Da non trascurare anche la gelosia, qui rappresentata dalla donna e che prosegue per due binari nel sottotesto filmico: come abbiamo già citato, è dovuta principalmente alla paura di rimanere in solitudine, ma si tratta anche della gelosia della sessualità giovanile, con alcune scene chiave come il voyeurismo nello sbirciare la nuora e Hachi nudi nella capanna e l’offerta di avere un rapporto sessuale con lei invece che con la nuora.

Quando alla donna non rimane altra scelta se non ricorrere alla maschera di demone per fermare la nuora, capiamo che questo è solo l’ultimo tentativo di evitare in primo luogo la solitudine, condizione sempre universale e quanto più umana, in un mondo che non sembra lasciare posto alla rassicurazione. 
La donna emula il demonio ma il demonio emula l’essere umano, la maschera si attacca al volto della donna per punizione divina da parte di Buddha e, come nei grandi teatri giapponesi (fra tutti il , da cui viene presa la maschera usata in Onibaba, in un omaggio alla dimensione teatrale nipponica), la maschera è il personaggio, il vero volto è la maschera. 

Ed ecco che, nel finale, il vero demonio insegue per l’ultima volta la nuora, spaventata dal vero volto del demonio, cercando conforto. Il demone-donna cadrà, 
per sempre.
 

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Autore

  • Edoardo nasce da un padre cinefilo che in gioventù possedeva una videoteca. In quarantena lo accompagna in visioni di film come Arancia Meccanica.
    Edoardo prova a passare il tempo libero gettandosi sui primi film, come un Taxi Driver su altadefinizione, che per sentire bene l’audio attaccò una cassa al pc. Da lì innumerevoli i pomeriggi passati in ricerca continua degli angoli più remoti del cinema. Tra i tanti, predilige il muto, lo spiritualismo di Tarkovskij, la disamina di fede e famiglia di Bergman, le nevrosi dell’umanità di Cassavetes, l’esoterismo di Jodorowsky, la verità estatica di Herzog, la follia di Fassbinder… ci fermiamo qua. È infatti tipico di Edoardo guardare le persone con lo sguardo nella foto soprastante che gli parlano di cinema che non sia Fight Club o Interstellar.


     

     

     

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