L’UOMO CHE PRENDE GLI SCHIAFFI

Questa voce fa parte 22 di 32 nella serie N1 2025

MUTO

Di Gianluca Meotti

Uscito nel 1924, è il primo degli otto film hollywoodiani di Victor Sjöström e il primo film in assoluto prodotto dalla MGM e da Irving Thalberg. Basterebbe solo questo per rendere L’uomo che prende gli schiaffi (He Who Gets Slapped), tratto da un’opera teatrale di Leonid Andreyev, oggetto di culto per ogni cinefilo e per finire negli almanacchi della storia del cinema. L’opera del padre del cinema svedese offre uno scorcio profondo e spietato sulla follia umana, caratterizzato da un pessimismo che difficilmente si potrebbe ritrovare in un film MGM della Golden Age. Mentre il cinema americano dell’epoca tendeva verso narrazioni più patinate e finali consolatori, Sjöström si distingue per una visione cruda e autentica dell’animo umano, ricca di introspezione e dilemmi morali, che evidenzia il contrasto tra l’approccio esistenzialista europeo e l’estetica hollywoodiana più tradizionale.

Il film, all’uscita, fu un grandissimo successo commerciale, di critica e il più grande incasso della carriera di Sjöström. Fu tanto amato che riuscì a far assorgere al rango di star due attori come Lon Chaney, ottimo nel trasformare in virtù le insidie date dal pesante make-up, e John Gilbert, l’eroe romantico per eccellenza di cui si innamorerà una nazione.

Dopo anni difficili, lo scienziato Paul Beaumont (Lon Chaney) trova finalmente un mecenate nel ricco Barone (Marc McDermott), che finanzia le sue ricerche e lo accoglie nella sua dimora. Quando Paul elabora una rivoluzionaria teoria sull’evoluzione umana, decide di presentarla all’Accademia delle Scienze. Tuttavia, proprio in quel momento, il Barone si rivela per ciò che è: si appropria delle idee di Paul e, per umiliarlo davanti a tutti, arriva a schiaffeggiarlo pubblicamente, scatenando le risate del pubblico. Emotivamente devastato, Paul torna a casa cercando conforto nella sua fidanzata Marie (Ruth King), ma scopre che lei ha una relazione segreta con il Barone. In preda alla rabbia e alla disperazione, distrugge il proprio studio e la sua carriera scientifica. Cinque anni dopo, Paul è un uomo diverso: ha abbandonato la scienza e si esibisce come clown in un circo. Il suo personaggio, HE, è amatissimo dal pubblico per una routine particolare: ricevere schiaffi. Tra gli altri artisti del circo ci sono Bezano (John Gilbert), un cavallerizzo, e Consuelo (Norma Shearer), una giovane appena arrivata. Tra i due nasce un legame speciale, minacciato però dalle macchinazioni del padre di Consuelo e dall’inaspettato ritorno del Barone. Paul, segretamente innamorato di Consuelo, si ritrova costretto a confrontarsi con i demoni del passato per cercare una soluzione e trovare la redenzione.

Che Sjöström fosse un raffinato narratore di vite sventurate non ci viene rivelato certo in questa pellicola; esempi come Ingeborg Holm (1913) e C’era un uomo (Terje Vigen, 1917) presentano un’attenzione psicologica raffinata e mai monodimensionale, cosa che nel cinema della prima ora acquisisce un valore ancora maggiore. Qui non risulta essere da meno, in quanto costruisce la narrazione su vari livelli, valorizzando sempre l’elemento visuale. In questo senso è indicativa la primissima immagine del film, extra-diegetica, che vede un clown ridanciano far roteare una grande palla che si trasforma nel mappamondo nello studio di Paul, dando il via alla vicenda (questa immagine tornerà più volte con significati sempre più strazianti).

Il tema, ampiamente sbandierato, della follia rappresenta solo il primo livello di cui sopra: essa appare come l’effetto più evidente della condizione del protagonista. Sjöström firma un capolavoro sull’impatto del trauma e sui modi in cui la mente tenta di elaborarlo. Il geniale scienziato, deriso e schiaffeggiato, si rifugia nella clownerie, in virtù di un patto implicito tra spettatore e artista sul palco. Entrambe le parti sanno che ciò a cui assistono non è reale: Paul/HE rivive il suo trauma in un contesto differente per convincersi di una verità più profonda. Non è davvero un clown o uno stupido, ma un uomo geniale che recita una parte.

Tuttavia, più il pubblico ride, più Paul si illude di essere rispettato. Questo fragile equilibrio rischia però di crollare: il trauma ha lasciato un segno troppo profondo, e l’identità dello scienziato è stata progressivamente divorata da quella dello schiaffeggiato di professione. Il suo “io” è ormai annientato, intrappolato in una spirale senza uscita.

Il doppio, quindi, risulta essere uno dei tropi maggiormente affrontati, ma non solo per il dualismo HE/Paul: il mondo scientifico-accademico da cui il protagonista proviene, in cui si è immersi all’inizio del film, si confronta con l’ambiente circense scanzonato e informale nel quale si è immersi da inizio secondo atto in poi. Contestualmente, la fotografia molto satura restituisce delle immagini che quasi non presentano grigi, ma un’accesa dialettica visiva fra bianchi luminosi e neri avvolgenti.

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Autore

  • Studente DAMS di giorno; per il resto cinema, film e pellicole cinematografiche. Nella sua testa c’è sempre un piccolo Marshall McLuhan che gli dà ragione.


     

     

     

     

     

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