TORO SCATENATO
CHALLENGERS… ANCHE BASTA
di Giovanni “Fusco” Pinotti
Challengers mi ha fatto alquanto cagare.
Il sospiro carico di sdegno e sgomento che la maggior parte di voi molto probabilmente ha appena emanato è esattamente il suono che ho sentito io quando ho proclamato ad alta voce questa opinione nel corso dell’ultima riunione della redazione (seguito da altri suoni che mettevano in dubbio le mie facoltà mentali o che incitavano a rovesciare questo direttore evidentemente incompetente e ignorante). Non ci vuole un sondaggio su misura nazionale per capire quanto l’ultima fatica di Luca Guadagnino sia stata apprezzata, da cinefili e non, successo di critica e pubblico che rende la mia sentenza precedente decisamente controversa.
Nonostante la mia antipatia artistica nei confronti di uno dei cineasti più impegnati (lavorativamente, non politicamente) e richiesti di Hollywood e benché la mia prima visione al cinema di Challengers mi avesse fatto venir voglia di mettere la testa nel forno, nel corso di queste vacanze natalizie ho deciso di dargli una seconda opportunità: se tutti lo amano, ci dovrà essere un motivo, no? Se Sibilla e Gianluca, membri fidati della redazione, si sono autoproclamati paladini del film, allora sicuramente la mia impressione iniziale sarà errata, giusto?
No.
Ma attenzione: Challengers non è un film brutto; non sono così tanto in malafede da metterlo sullo stesso piano di un Morbius o di un Emoji Movie. Il vero peccato del dramma triangolare di Guadagnino è l’essere terribilmente, irrimediabilmente, fatalmente noioso. Mi ricordo che, verso la fine della proiezione, in sala una signora seduta col marito pochi posti davanti a me non trovava più il cellulare, infilatosi proditoriamente in mezzo alle poltroncine, e quella piccola, quotidiana scenetta era riuscita a catturare la mia attenzione molto più di quel pachiderma di pellicola che, alla sua ormai seconda ora, mi stava torturando senza pietà sensi, spirito e gonadi.
In piena tradizione guadagniniana, ci tocca seguire personaggi piatti, piagnoni e prevedibili almeno quanto la storia, che in due ore e dieci (ho dovuto controllare più volte la durata effettiva, perché durante la visione il conteggio dei minuti mi sembrava almeno il doppio) cerca di farci entrare nell’affascinante (sulla carta e decisamente non per me) mondo del tennis e dei triangoli amorosi, delle ambizioni e dei risentimenti, fallendo miseramente. Dopo già solo mezz’ora di dialoghi imbarazzanti e talvolta pure recitati piuttosto male, collegati a situazioni decisamente inverosimili, la voglia di invadere la Polonia, per citare Woody Allen, era già grande; dire poi che dei tre ragazzini che si sbaciucchiavano e manipolavano a vicenda mi interessasse meno della geomorfologia del Paraguay sarebbe l’eufemismo del secolo: tutta la tecnica sbandierata, tutti gli interessanti spunti registici e fotografici offerti dal film vengono resi vani da frasi stucchevoli e banali, da un triangolo sensual-sportivo che il regista fa di tutto per rendere il meno coinvolgente e interessante possibile. Chiaramente, la chimica tra i tre protagonisti è inesistente; l’unica cosa che emana dalla pellicola, oltre alla (solita) spocchia che circonda l’opera come un gas tossico, è l’incredibile attrazione, quasi feticistica, che Guadagnino prova nei confronti delle proprie muse; tutto legittimo, ci mancherebbe, ma magari la prossima volta sarebbe il caso di costruire attorno ai fisici statuari e alle chiappe sode anche dei personaggi non insopportabili e una storia di cui mi interessi anche solo un pochettino e che non mi dia lo stesso effetto di un sedativo. Io la butto lì…
E poi quella colonna sonora. Quella maledetta colonna sonora. Da amante delle OST e anche dei Nine Inch Nails, ero molto curioso di sentire cosa avesse combinato questa volta quel gran bel genietto di Trent Reznor, già navigato compositore di brani per la settima arte; inoltre, non pochi avevano menzionato le musiche del film come pregio, come valore aggiunto di un film già colmo di lati positivi. Immaginate quindi la mia sorpresa e il mio violento giramento di attributi quando mi sono sentito bombardare i padiglioni auricolari da un’insopportabile musicaccia techno, insostenibile quasi quanto i personaggi che accompagnava. Durante la scena del confronto finale, già inspiegabilmente dilatata temporalmente e quindi ancora meno digeribile del resto del film, la techno voluta da Guadagnino rimbomba continuamente e non si capisce cosa debba andare a sottolineare, quale valore debba aggiungere a questo scontro costruito (male) durante tutta l’opera, quale scopo debba servire se non quello di farmi invocare l’intervento di qualche divinità pagana che privi i poveri spettatori, ostaggio del cineasta palermitano, di vista e udito, liberandoli così dalla loro agonia. Insomma, per me la challenge di Challengers è stata quella di finire il film, di non addormentarmi, di non alzarmi per fare qualsiasi altra cosa o guardare un film (magari italiano) più meritevole di questa materializzazione cinematografica della noia; esteticamente caruccia, per carità, ma pur sempre tediosa.
IN DIFESA DEGLI SFIDANTI
di Gianluca Meotti
Partiamo con i dati oggettivi: dalle coordinate temporali in cui scrivo (06/01), si è da poco conclusa la cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Fra i vari The Brutalist ed Emilia Pérez svettano le quattro candidature, tra cui una come miglior film commedia/musicale, e un globo portato a casa da Challengers. La statuetta vinta dal film di Luca Guadagnino è quella per la miglior colonna sonora, firmata da Trent Reznor e Atticus Ross.
Sì, lo so, lo so, i premi non sono un riconoscimento oggettivo di qualità a un prodotto audiovisivo. Però, se i giornalisti del fu Hollywood Foreign Press Association hanno ritenuto Challengers meritevole di candidature e di un premio, un motivo ci sarà. Nessuno si è svegliato una mattina pensando: “Perché non inseriamo quell’orrendo film sul tennis fra i sei, tanto per cambiare?”. Tralasciando il fatto che, vedendo certe edizioni passate delle maggiori premiazioni USA, l’idea che un discorso simile possa essere stato fatto non sembra così assurda (sì, sto pensando proprio a te, Top Gun: Maverick), non è certo questo il caso di Challengers.
Proprio perché è notizia freschissima e il mio amato direttore l’ha definita “un’insopportabile musicaccia techno, insostenibile quasi quanto i personaggi che accompagnava”, farò partire la mia arringa difensiva proprio dalla musica di Reznor e Ross. Dall’inizio alla fine, il nostro cervello viene immediatamente sintonizzato sugli altissimi BPM dei brani prodotti dai compositori: un elettro pop/techno che ci trasporta direttamente nei migliori club di tutto il mondo. E pensare che il film è, in fondo, un melodramma…
Ma non è tutto! Per un film che basa gran parte della sua riuscita sul ritmo, sulle intensità emotive restituite dai personaggi e sulla loro capacità di seduzione, sbagliare la colonna sonora sarebbe stato un errore imperdonabile. Fortunatamente, così non è stato. La potenza sonora e martellante dei pezzi è un motore fondamentale della narrazione, tanto da essere sufficiente per riempire due film; sicuramente riempie le discoteche. Per concludere, voglio sottolineare che è raro che la colonna sonora di un film (a meno che non si tratti di canzoni già note) riesca a farti saltare e ballare come un pazzo non appena premi “play”. E questa ci riesce alla perfezione.
Passiamo ora all’elemento che più di tutti ha fatto innamorare il pubblico di questo film: la rappresentazione della passione. Certo, quella per il tennis, utilizzata come miccia per far esplodere la storia, ma soprattutto quella tra i tre personaggi e i loro corpi. Vediamo Tashi, Art e Patrick in un arco temporale di circa quindici anni, dalla post-adolescenza fino alle soglie dei trent’anni: un periodo di crescita e di affermazione del sé, tema a cui Guadagnino si è sempre rivolto nei suoi film, ma mai con un’attenzione così specifica per il desiderio.
E meno male che ci pensa lui, perché altrimenti, con certi approcci freddi e asettici alla narrazione (cof cof Nolan), saremmo davvero messi male. In un cinema mainstream sempre più patinato e privo di pulsioni forti (anche omicide, perché no?), Guadagnino porta una tanto desiderata boccata d’aria fresca.
E poi, diciamocelo: anche chi sostiene che il film non gli sia piaciuto (non parlatemi più) farebbe la fila per rivedere la scena del bacio a tre, non prendiamoci in giro…
Riconosco che Guadagnino possa essere uno di quegli autori che si amano o si odiano (a parte Melissa P., cui non credo dedicheremo mai una puntata di questo format), ma credo che qui ci siano elementi capaci di soddisfare tutti i tipi di pubblico. Non è mieloso come Chiamami col tuo nome, né blasfemo come Suspiria, né gore come Bones and All: è uno splendido melodramma fatto di tradimenti, bugie, amori stroncati, amicizie finite malissimo e intensi corpi sudati. Cosa volete di più?
Senza menzionare poi la pallina. Quella dannata pallina. In una delle scene iniziali del Napoléon di Abel Gance, durante la lotta a palle di neve, il geniale regista francese inserisce un’inquadratura in POV di una pallina mentre viaggia da una trincea all’altra. Ebbene, una scena identica si ritrova anche in Challengers, con la superficie verde e ruvida della pallina da tennis a sostituire la neve.
Tutta questa digressione tecnica per dire ai filmbros più puntigliosi quanta cultura cinefila ci sia in un film del genere (e per quelli che non avevano notato la citazione, prego: pensatemi quando la userete per fare bella figura con i non cinefili).
Se, dopo questi quattromila caratteri abbondanti di motivi per apprezzare Challengers, continuate a pensare che guardarlo sia stato uno spreco, non aggiungo altro, se non che ve lo meritate Alb… ehm Nolan!!!



CHIAMAMI COL TUO NOME: PINTEREST CORE
Di Miriam Padovan
Chiudete gli occhi e immaginate un perfetto dramma da Oscar: ecco, avete appena immaginato Chiamami col tuo nome. Luca Guadagnino ci consegna un’opera che, a prima vista, è raffinata e intensa, ma che, scavando appena sotto la superficie, sembra un po’ l’equivalente cinematografico di una matricola del DAMS: un egocentrico ammasso di citazioni colte da sfoggiare quando provi a rimorchiare in Montagnola.
Il film è ambientato nella solita Italia da cartolina, quella che il mondo ama immaginare: ville decadenti ma perfettamente curate, alberi di pesco in fiore, biciclette che sfrecciano su strade sterrate (senza buche, ovviamente), e un’infinita sfilata di luoghi che sembrano pensati per un set di Pinterest. Guadagnino non ci presenta un Paese reale, ma un’espressione geografica – un’Italia così astratta e idilliaca che potrebbe tranquillamente esistere su un pianeta parallelo popolato da esteti con l’ossessione per l’arredo di design.
E poi ci sono i personaggi: ridotti a semplici cifre animate, sembrano incapaci di pensare o agire con una minima dose di spontaneità. Elio è una creatura fragile, ingenua e fin troppo cerebrale, mentre Oliver è il classico stereotipo di maschio alfa: carismatico, affascinante e con la costante aria di chi sta per posare per una pubblicità di profumi. La loro relazione, pur essendo il fulcro del film, sembra più una recita per corpi che si sfiorano senza mai davvero entrare in contatto. La vera intimità tra loro non è solo fuori campo, ma sembra del tutto estranea al mondo di Guadagnino, più interessato a illuminare la texture di un divano che i sentimenti dei suoi personaggi.
Sì, voglio proprio parlare di lei: la famigerata pesca. Elio si masturba con il frutto in questione, in un’esplosione di simbolismo che farebbe sorridere anche Freud. Quando Oliver scopre l’atto, lo prende in giro con un misto di fascino e fastidio. Ma attenzione: non è seduzione, è uno spettacolo di potere mascherato da gioco. Elio è visibilmente a disagio, e il tutto lascia un retrogusto più simile a un’umiliazione che a una vera connessione. È impossibile ignorare l’abisso di esperienza e potere tra i due: Oliver è un uomo adulto (Armie Hammer aveva trent’anni durante le riprese e non voglio nemmeno citare le cose di cui è stato accusato) che domina ogni situazione con la sicurezza di chi ha già vissuto tutto; Elio, al contrario, è un ragazzino insicuro, praticamente un’opera incompiuta. Questa asimmetria, più che generare tensione erotica, mette in evidenza una relazione sbilanciata che Guadagnino sceglie di non affrontare mai davvero.
Eppure, il film è acclamato come una poetica riflessione sul desiderio. Ma quale desiderio? Non quello erotico e tortuoso che ci si potrebbe aspettare. Qui si parla di un desiderio infantile e vorace: possedere il mondo, distinguersi dalla folla, affermarsi come anime elette. È il desiderio di un’élite colta e cosmopolita, quella stessa alta borghesia che Guadagnino conosce e rappresenta con tutti i suoi cliché: ricchissima, poliglotta e perennemente in vacanza in una dimensione parallela dove le tasse non esistono e la cultura è ridotta a un elegante soprammobile.
In questo microcosmo privilegiato, l’Italia gioca un ruolo cruciale. Non è una nazione con una storia complessa e travagliata, ma un museo a cielo aperto, un Eden innocuo e perfetto per l’autocelebrazione. I personaggi si muovono in questo scenario come turisti aristocratici dello spirito, senza mai sporcarsi le mani con la realtà. Guadagnino costruisce un mondo impeccabile, ma lo fa a discapito della sostanza. Le emozioni sono recitate con una letteralità blanda, le idee languono nello stesso ritmo della narrazione, che si trascina tra una scena esteticamente ineccepibile e l’altra.
Eppure, ci sono elementi che funzionano: la colonna sonora è struggente e potente e il monologo finale del padre di Elio è un raro momento di autenticità, capace di toccare corde profonde. Ma è abbastanza? No, non lo è. Perché alla fine, Chiamami col tuo nome sembra un film che vuole dire molto, ma in verità he just yappin’ bruh.
Insomma, Guadagnino ha realizzato un prodotto perfetto per il mercato internazionale: elegante, accessibile, e rassicurante nella sua distanza dalla realtà. Un film che si guarda come si sfoglia un catalogo di moda, con un misto di ammirazione e alienazione. Chiamatelo col suo nome: un esercizio di stile.
“CHIAMAMI CON IL TUO NOME E IO TI CHIAMERÒ COL MIO”
Il monumento di Luca Guadagnino
Di Sibilla Bissoni
“Chiamami col tuo nome” (Call me by your name) del 2017 è, forse, il più iconico lungometraggio firmato dal grande regista Luca Guadagnino.
Guardando e riguardando la pellicola mi sono ritrovata sempre a pensare che fosse a dir poco magistrale.
Avevo quattordici anni la prima volta che vidi il film e venti pochi giorni fa quando mi sono fatta il regalo di rivederlo, eppure il mio pensiero rimane pressoché lo stesso, solo arricchito da riflessioni maggiormente articolate vista l’età che avanza.
Quando parlo e difendo Guadagnino non mi viene proprio da essere aggressiva o agitata: i suoi film mi raccontano spesso situazioni difficili con grande delicatezza, e così mi adeguo al sentimento che provo pensando alla sua opera.
Non sono di certo l’unica persona ad amare “Chiamami col tuo nome”, film pluripremiato e addirittura vincitore di una statuetta data dall’Academy per miglior sceneggiatura non originale a James Ivory. Sì, va bene, sempre la solita storiella: “i premi non trasformano per forza un film in un capolavoro intoccabile”, eppure in questo caso non mi appresto certo a conferire il titolo di capolavoro alla suddetta pellicola, ma sicuramente rimane uno di quei film capaci di colpirti al cuore e alla pancia come pochi altri dell’epoca contemporanea del suo genere.
Dal toccante romanzo di André Aciman, Guadagnino e la sua squadra sono riusciti a creare un’opera entusiasmante nella sua apparente banalità.
Un amore estivo si trasforma nella parabola prima ascendente e poi discendente di Elio, un ragazzo borghese franco-americano che trascorre le vacanze estive dell’83 nel nord Italia con la famiglia. Il padre, che di lavoro fa il professore di archeologia, ogni anno ospita nella tenuta estiva un suo studente che sta scrivendo la tesi di dottorato, e nell’estate che racconta il film lo studente scelto sarà Oliver.
Elio e Oliver si innamoreranno nel corso delle sei settimane in cui il carismatico dottorando americano sarà ospite in casa del riflessivo ragazzo protagonista.
Tra i meravigliosi sfondi delle campagne che circondano Crema, si consumerà velocemente e passionalmente un amore da un lato molto profondo, dall’altro davvero immaturo, come del resto Elio, che sta scoprendo per la prima volta una sessualità nuova, un’attrazione (a tratti fatale) per un uomo più grande di lui, più esperto, di certo consapevole che un mese e mezzo non è una vita intera.
La delicatezza con cui il regista racconta l’amore di questi due ragazzi è maledettamente realistica, onesta e a tratti forse già vista.
Narrativamente parlando, il film di Guadagnino è assai scarno e anche, se vogliamo, simile ad altri film che si delineano come dramma romantico, ma grazie alla personale estetica riportata ad una situazione abbastanza scontata, il regista riesce a restituire un’opera d’arte.
Attraverso un montaggio non particolarmente arzigogolato o frenetico, inquadrature d’impatto e scenografie veriste, il cineasta fa immergere gli spettatori in una natura benigna, non eccessivamente antropica e che si fa metafora di un amore all’inizio goffo, alla fine disperato.
Tutto questo viene poi magistralmente condito da una colonna sonora struggente e perfetta per la pellicola. Le canzoni presenti nella compilation che arricchisce le scene del film sono differenti tra loro, ma comunque tutte estremamente adatte e posizionate sempre al posto giusto. Troviamo brani capolavoro come “J’adore Venise” della Bertè, o “Radio Varsavia” del maestro Battiato, e poi tre brani di quello che si può chiamare “protagonista delle musiche del film”: l’illuminato cantautore Sufjan Stevens.
Ringrazio con il cuore quest’uomo per aver composto, suonato e cantato i tre inediti brani iconici del film e poi, successivamente, anche della mia vita: “Mistery of love”, “Visions of Gideon”, e la versione al pianoforte di “Futile Devices”.
Spenta la tv dopo aver visto “Chiamami col tuo nome”, mi trovo ogni volta di fronte ad un’opera che non chiamerei perfetta in sé, ma perfetta per chi ha vissuto o desidera vivere un amore travolgente e disperato (ricordo quel pugno in bocca che sono i titoli di coda), un amore classico e che le persone un po’ tristi chiamano noioso o scontato, anche trovandosi davanti alla cosa più magica che possono creare due giovani cuori insieme.
Come si dicono Oliver ed Elio durante il film: “Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio”, uno scambio di chi sei tu e chi sono io nell’unicum di un amore smielato (e per questo, in questo caso, davvero reale).
Guadagnino, come si ripete spasmodicamente tra amici (e nemici): “O lo ami o lo odi!”. Io ho scelto di amarlo, non affidandomi ad una cieca idolatria retorica, ma abbracciando la sua visione con consapevolezza. I suoi film mi fanno immedesimare in realtà nuove o anche già viste, sempre con un’estetica ineccepibile e una sensibilità audace e profonda.




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