La Moda secondo il Cinema

Questa voce fa parte 27 di 32 nella serie N1 2025

COSTUMI

Storia di un sincretismo

Di Morgana Maria Mosconi

“Proprio in quanto oggetto dello sguardo, il corpo necessita del vestito”, scrive Guglielmo Pescatore in La Cifra del Vestito. Per quanto semplice possa essere, questa citazione rimanda già all’importanza, data spesso per scontata, che ha avuto e continua ad avere la Moda all’interno della settima arte. La pellicola cinematografica necessita del vestito. Gli abiti raccontano disfunzioni familiari, emozioni inespresse, blocchi psicologici e inquietudini del personaggio; se questi non lo facessero, la filmografia di qualsiasi autore non potrebbe mai raggiungere i suoi massimi livelli di espressività visiva. Il rapporto tra Cinema e Moda è estremamente sincretico: al suo centro troviamo ovviamente lo sguardo dello spettatore che, anche se inconsciamente, intuisce idee, emozioni e situazioni dei personaggi. Nonostante il Cinema sia stato fin dall’inizio strettamente legato al costume, questo non è partito con grandi riconoscimenti o considerazioni; dimostrativo il fatto che il Premio Oscar per i costumi viene istituito solo nel 1948, piuttosto in ritardo.

Alle origini del Cinema, le attrici e gli attori pensano personalmente al guardaroba del personaggio interpretato, utilizzando vestiti da loro posseduti o rivolgendosi alle sartorie teatrali, anche se quest’ultimo caso è riservato per la maggior parte ai film in costume. Nonostante il poco interesse in materia, paradossalmente il costume era, ancor più di oggi, una parte fondamentale. Doveva comunicare ciò che non poteva essere detto a parole: lo status sociale del personaggio, il suo carattere, le emozioni ed intenzioni. Pensiamo ad esempio a Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915) di D.W. Griffith, dove il costume è utilizzato per creare un’immediata distinzione dei personaggi, sfruttando colori e stili per riflettere ideologie e sentimenti. Nonostante le controversie, il film è noto per l’uso dei costumi dell’epoca della Guerra Civile Americana, utilizzando tecniche innovative per il tempo. Qui si colloca una delle prime costumiste di Hollywood, Clare West, a cui viene attribuita la creazione del famoso cappello bianco appartenente al Ku Klux Klan presente nella pellicola.
Altro lavoro particolarmente importante di West lo troviamo in Intolerance (D.W. Griffith, 1916): la grandiosità e accuratezza storica dei costumi è sorprendente per il periodo, capace di calare lo spettatore in 2500 anni di storia e descrivere abilmente rango sociale e caratteristiche dei personaggi. È ritenuto il primo film di Hollywood con costumi progettati da una costumista per ogni membro del cast.
La stessa cura e grandezza la ritroviamo in Cleopatra (J. Gordon Edwards, 1917), con George James Hopkins come realizzatore; impresa monumentale che ha richiesto attenzione ai dettagli e all’accuratezza storica, utilizzando però alcune caratteristiche della moda del tempo per rendere il tutto più accattivante per lo spettatore.
Il costume nel Cinema muto era un linguaggio a sé stante, capace di comunicare atmosfere e messaggi complessi senza il suono della voce. Oltre agli attori, gli scenografi curavano spesso i costumi, come nel caso di Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914). Successivamente ci si rende conto della necessità che qualcuno si dedicasse interamente agli abiti: ideare per il cinema era diverso dall’ideare per la vita reale; non ci si poteva permettere imperfezioni, visti i frequenti primi piani e le continue luci puntate su qualsiasi piega di tessuto.
Verso la metà degli anni Venti, nasce ad Hollywood la figura del costumista vero e proprio. Il passaggio dal muto al sonoro influenza inevitabilmente il design dei costumi. Le necessità cambiano, i tessuti devono essere meno ingombranti e rumorosi a causa dei microfoni e non c’è più il bisogno che i vestiti siano così tanto teatrali, visto l’uso della parola che sempre di più ricopre il ruolo principale nell’immersione nella storia. In ogni caso, il costume rimane sempre importante, come possiamo notare in Anna Karenina (Love, 1927) di Edmund Goulding. I costumi, realizzati da Gilbert Clark, riflettono l’eleganza e la sofisticatezza dell’epoca, creando un’atmosfera romantica e, allo stesso tempo, esaltando la bellezza e il fascino di Greta Garbo. Una personalità particolarmente importante per Garbo sarà Adrian (Adrian Adolph Greenberg), che disegnerà i costumi per diciotto dei suoi film, tra i quali l’abito bianco in Il velo dipinto (The Painted Veil, Richard Boleslawski, 1934), perfetto esempio dell’eleganza e raffinatezza in voga negli anni Trenta raccontato da film e dive del Cinema.
Allo stesso modo possiamo parlare di qualsiasi abito in Romanzo (Romance, Clarence Brown, 1930), con linee pulite, tessuti pregiati e dettagli raffinati. Il suo lavoro, assieme a quello di altri costumisti degli stessi anni (Irene Lentz e Orry-Kelly), arrivò ad influenzare la moda di tutto l’Occidente, oltrepassando anche le collaborazioni con le grandi case di moda. L’influenza fu tale che nei grandi magazzini era solito trovare “reparti cinema”, così che i clienti potessero avere copie di capi appartenenti a pellicole del momento ad un prezzo accessibile. Alcune grandi catene crearono poi negozi specializzati, come Macy’s Cinema Shop.

Fig.1

Torniamo ad Adrian, il quale, ormai costumista di enorme successo, firma un contratto con la Metro Goldwyn Mayer che durerà dal 1929 al 1942. Egli lavora anche all’immagine di un’altra delle più grandi dive degli anni Trenta: Joan Crawford. Per nascondere la figura “imperfetta” di quest’ultima, Adrian enfatizza la larghezza delle spalle grazie a tailleur¹ e abiti dalle ingombranti spalline, in modo da distogliere l’attenzione dal busto imponente e dalle gambe poco slanciate. Il perfetto esempio è il Letty Lynton Dress (Fig.1), abito di organza² bianca con volant³ svasati lungo le spalle e l’orlo, che causò la vera e propria mania della moda a livello nazionale, producendo fino a mezzo milione di copie. In ogni caso, qualsiasi costume presente in Ritorno (Letty Lynton, Clarence Brown, 1932) rappresenta la capacità del design cinematografico di influenzare la Moda e la cultura popolare.

Fig.2

Negli anni Trenta in generale troviamo un mix di realismo e spettacolo che rendono i film visivamente magnetici, ma con la capacità di immergersi nel mondo raccontato. Capostipite di questa particolarità è sicuramente Maria di Scozia (Mary of Scotland, 1936), diretto da John Ford con Katharine Hepburn nel ruolo di Maria Stuarda. I costumi, disegnati da Walter Plunkett, riflettono molto l’estetica anni Trenta, ma nonostante questo, grazie a tessuti, forme e dettagli, riescono a ricreare l’atmosfera del 1560. Come lui, i costumisti si ispiravano a veri abiti storici per creare costumi sì autentici, ma che comunque soddisfacessero le evenienze del periodo. Negli stessi anni ricordiamo Travis Banton per la sua creazione degli iconici completi maschili indossati da Marlene Dietrich (Fig.2), creando un’icona dell’androginia. L’esempio per eccellenza lo troviamo in Marocco (Morocco, Josef von Sternberg, 1930). L’attrice continuerà poi ad indossare gli stessi completi anche in pubblico e nella vita privata, suscitando indignazione e un vero proprio scandalo ad Hollywood.

Il periodo tra il 1939 e il 1948 è considerato fondamentale per l’evoluzione della cinematografia; questo va a pari passo con il design e i costumi, ponendoli in un ruolo sempre centrale nella narrazione visiva dei film. Il primo a cui si pensa è probabilmente Via col vento (Gone with the Wind, Victor Fleming, 1939), con costumi di Walter Plunkett, pensati come un’accurata rappresentazione della moda del Sud degli Stati Uniti nel periodo della Guerra Civile. I bozzetti originali rappresentano dei capolavori di design e creatività: basti pensare al Curtain Dress (Fig.3), rimasto nella storia come simbolo della determinazione di Scarlett O’Hara di sopravvivere nonostante le difficoltà. Ogni abito ha qualsiasi particolare utile per comunicare le evoluzioni dei personaggi. Pensando sempre a Scarlett, Plunkett utilizza tessuti come organza, tulle e cotone nella prima parte per sottolinearne la giovinezza e la spensieratezza; più avanti nel film sceglierà invece la seta e il velluto , riflettendo il crescente status sociale e l’evoluzione del personaggio.

(Fig.3)

Un altro colosso del periodo è Il mago di Oz (The Wizard of Oz, Victor Fleming, 1939), con costumi di Adrian che hanno creato scene memorabili, come il vestito a quadri di Dorothy e il costume scintillante della Strega dell’Ovest. La stessa importanza ha avuto Jack Dawn, capo reparto del trucco della MGM, noto per aver introdotto l’uso di protesi in lattice prefabbricate per il trucco di vari personaggi. L’elemento forse più iconico, però, lo ritroviamo nelle scarpette rosse di Dorothy, argentate nel libro originale ma cambiate dai produttori per sfruttare al meglio il Technicolor. Si stima che ne siano state utilizzate cinque paia diverse, ma solo quattro sono sopravvissute fino ad oggi. Negli anni della Seconda guerra mondiale, nonostante le difficoltà, i costumi continuano ad essere un elemento chiave.
Un riguardo speciale meritano i costumi di Le fanciulle delle follie (Ziegfeld Girl, Robert Z. Leonard, 1941) (Fig.4), creati ancora una volta da Adrian. Abiti impressionanti con dettagli in piume, perline e seta, in grado di cambiare colore con le luci, strutture così elaborate da sembrare assenti dalla forza di gravità; rendono ogni scena un quadro vivente.

Fig.4
Fig. 5

Negli anni del dopoguerra il Cinema vede un ritorno alla grandiosità e un’ancora maggiore attenzione ai dettagli nei costumi; ricordiamo i costumi di Leah Rhodes ne Il grande sonno (The Big Sleep, Howard Hawks, 1946), riflesso del mondo del noir con trench e abiti eleganti e seducenti. Gilda (Charles Vidor, 1946) ha invece reso immortale l’abito nero da sera di Rita Hayworth, molto sensuale grazie al taglio a cuore e il guanto nero.
Nel fatidico 1948 viene introdotto l’Oscar per il Miglior Costume e il lavoro dei costumisti acquisisce finalmente il rispetto meritato e il riconoscimento formale. Questa data indica un punto di svolta, sottolineando l’importanza degli abiti e delle personalità dietro di questi e cambiando percezione e standard di eccellenza e creatività.

1 Abito femminile composto da una gonna o un pantalone e una giacca di taglio maschile.
2 Tessuto sottile e trasparente piuttosto rigido, tradizionalmente tessuto in seta.
3 Striscia di stoffa pieghettata o arricciata per guarnizione o rifinitura.
4 Tessuto leggerissimo e trasparente formato da fili molto sottili intrecciati a rete.
5 Tessuto molto luminoso e fine che presenta sul dritto un fitto pelo rasato.
6 Scollatura su abiti femminili.
7 Tecnica che fa si che il tessuto cada a pieghe armoniche ed eleganti.
8 Tessuto delicato e trasparente prodotto con filati ritorti.
9 Impermeabile con cintura.

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Autore

  • Tutto parte da un amore per la moda. Con un riguardo particolare verso le sottoculture, quella gotica come capostipite tramandato dalla famiglia, l’interesse di Morgana sfocia poi nel costumismo (volente o nolente, vista la cerchia sociale costruita al DAMS). Se non sta spulciando tra gli archivi di Maison Margiela, Balenciaga, Vivienne Westwood o Alexander McQueen potete trovarla intenta a cucire e conseguentemente piangere, attività preferita dalla redattrice. Si impegnerà con la sua rubrica a dare risalto ad un settore cinematografico spesso sottovalutato.


     

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