8 MARZO
Tra cinema contemplativo e femminista
di Edoardo Sampaoli
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles uscì nel 1975. Tra la critica trovò fin da subito entusiasmo ed elogio: il New York Times, ancor prima che uscisse dalle sale, lo descrisse come “il primo capolavoro femminile nella storia del cinema”. Anche successivamente continuò ad avere conferme tra la critica: nel 2000 la rivista The Village Voice lo inserì al diciannovesimo posto nella lista dei migliori film del XX secolo e, ancor più di recente, nel 2022 la rivista Sight and Sound l’ha inserito al primo posto nella classifica dei migliori cento film della storia del cinematografo. Insomma, tra la critica si conferma e riconferma come un prodotto meritevole di stare al fianco dei grandi nomi, ma per il pubblico? Il pubblico non è mai arrivato: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles è rimasto costantemente nell’ombra. Saranno le tre ore e mezza, sarà la trama, sarà la scelta registica, ma relativamente pochi hanno scelto di dargli una chance. Io l’ho fatto, e l’unico rammarico è di non averlo fatto prima.
Chantal Akerman nacque il 6 giugno 1950 da genitori ebrei polacchi sopravvissuti alla Shoah e trasferitisi in Belgio. Dei due, la madre in modo particolare ebbe un ruolo molto importante nella vita di Chantal, incoraggiandola spesso ad essere indipendente e trovare così la sua emancipazione. All’età di quindici anni, in cerca di una passione, scoprì il cinema dopo la visione di Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, Jean-Luc Godard, 1965), e da lì, tre anni dopo, all’età di diciotto anni, si iscrisse a una scuola di cinema. Non attratta però dal metodo fin troppo accademico, decise di abbandonarla. Nel 1968 realizzò il suo primo film indipendente, Saute ma ville (Fig. 1).
Il cortometraggio mostra una ragazza senza nome (Chantal Akerman stessa) che frettolosamente raggiunge il suo appartamento, per poi chiudersi nella cucina. Qui in un crescendo scoppia il caos: la donna sigilla con lo scotch porte e finestre, rovescia gli oggetti più disparati sul pavimento, si strofina il lucido per scarpe sulla gamba e infine incendia un foglio di carta sul fornello con il gas acceso, dove la ragazza si accascia (Fig. 2). Tutto il corto viene accompagnato da delle onomatopee recitate sempre dalla Akerman in sottofondo. Il cortometraggio, seppur ancora lontano da quella maturità e idea stilistica di Jeanne Dielman, contiene all’interno già dei germi stilistici nell’ambientazione domestica con la cucina – di norma habitat per le donne in quel periodo – nella sua forma più concentrata.
Due anni dopo viene scoperta dal critico Eric De Kuyper, il quale le finanzierà il progetto successivo L’enfant aimé ou je joue à être une femme mariée (1971). Qui la trama è di una giovane madre (Claire Wauthion), sola con la figlia, che si confida con un’amica (Akerman). In questo caso la novità è il dialogo.
Nel frattempo, Akerman si è trasferita a Parigi, vivendo in stile bohème e senza riscaldamento in un appartamento in decadenza. Si trasferirà poi a New York sotto la protezione della fotografa Babette Mangolte (poi direttrice di fotografia con cui collaborerà per sei lavori, tra cui Jeanne Dielman). A New York nel 1972 realizza La Chambre e Hotel Monterey, finanziandosi con i soldi che ricava come bigliettaia di un cinema a luci rosse. Qui è più lampante la poetica che va formandosi, uno stile patinato, asettico ed effimero; si nota inoltre l’influenza della conoscenza degli artisti del posto, tra le influenze dell’arte strutturalista e il minimalismo. Per quanto riguarda il dialogo, l’approccio ricorda il Nouveau Roman, corrente francese sviluppatasi tra gli anni Cinquanta e Sessanta in cui la forma di narrazione si svincola dalla soggettività, che nei personaggi si dissolve nella loro esteriorità, degli oggetti che li circondano su cui l’autore si sofferma dettagliatamente. Nel 1973 torna in Europa, realizzando Le 15/8 e, nel 1974, Je, tu, il, elle. Infine, arriviamo al 1975, quando la venticinquenne Chantal Akerman gira il suo primo progetto importante: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles.
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles “semplicemente” narra la vita quotidiana, nell’arco di tre giornate, di Jeanne (Delphine Seyrig), una madre sola con il figlio (Jan Decorte) che si occupa di faccende domestiche come cucinare, sistemare la casa e occuparsi del figlio, pulendogli le scarpe e sistemando il suo letto. Il film si svolge quasi interamente nell’ambiente domestico e le uniche uscite di Jeanne riguardano esclusivamente compere per la casa. L’unica straordinarietà della quotidianità casalinga sono gli incontri sessuali che si svolgono nei pomeriggi in assenza del figlio e che rappresentano l’unica entrata economica per la donna.
1. Prima giornata: Ritmo, silenzio e contemplazione
Il film si apre a giornata inoltrata, quando siamo già a metà pomeriggio. La mdp è ad altezza uomo e ci troviamo, non a caso, nella stanza che sarà la più consumata del film, la cucina. Jeanne sta preparando quello che poi scopriremo più tardi essere la cena. Il campanello suona, Jeanne si cambia e accoglie un uomo. I due consumano un rapporto e lui esce. Jeanne deposita con cura i soldi all’interno di un vaso con coperchio in cucina, torna a cucinare, apre la finestra in camera, mette l’asciugamano che era sul letto a lavare, si lava nella vasca, lava la vasca e apparecchia. In questi primi tredici minuti possiamo già disaminare elementi alla base della costruzione filmica: ritmo, silenzio e contemplazione.
La vita di Jeanne si svolge con rigoroso ritmo. Ogni volta che esce da una stanza, la donna spegne la luce e chiude la porta, e questo è reso più evidente anche dalla mdp, che stacca solo nel momento in cui sopraggiunge il buio a luce spenta. L’ordine con cui organizza le sue giornate e le sue mansioni è costituito da un modulo che poi, nelle giornate a venire, vedremo ripetuto continuamente nel medesimo metodo. Il ritmo non risiede solo nelle azioni di Jeanne, ma più in generale anche nella riorganizzazione di montaggio che il film adopera: qui il ritmo diviene linguaggio, la scansione dei momenti e dei gesti comunica più delle battute nell’arco del film, il ritmo supera il linguaggio prendendone le redini di comunicatore.
In seguito, il silenzio. In questi minuti, l’unica battuta che sentiamo è “Allora… ci vediamo la prossima settimana”, pronunciata dall’uomo con cui la protagonista ha consumato il rapporto. Per il resto sono unicamente i rumori diegetici della vita di Jeanne a seguirci. Non è ancora stata presente – né mai lo sarà per tutta la durata della pellicola – una musica extradiegetica. La musica diviene l’insieme di piccoli rumori provocati dalle mansioni, che si riorganizzano in uno spartito prendendo ognuno il proprio spazio.
E infine contemplazione, che è il risultato di ritmo e silenzio. Jeanne Dielman compone un apparato registico di cinema contemplativo. Non c’è vera e propria azione davanti a noi (per esempio, noi non vediamo il rapporto sessuale: la mdp inquadra la porta della camera, dal corridoio, dove scompaiono i due; dalla luce naturale diventa buio grazie a uno stacco e vediamo uomo e donna che escono, facendoci percepire il tempo passato), la narrazione alla quale siamo abituati viene superata, ma questo ci dà la possibilità, per l’appunto, di contemplare le stanze, gli oggetti e il modo in cui Jeanne opera nello spazio, creando un effetto ipnotico ai nostri occhi e un senso di familiarità che cresce andando avanti nella pellicola.
Arriva il figlio: i due cenano insieme, Jeanne sparecchia e poi legge una lettera della sorella con il figlio, il quale le recita una poesia per la scuola. Jeanne si mette a cucire all’uncinetto un maglione già iniziato. In seguito, madre e figlio escono per buttare la spazzatura e fanno due passi per poi rientrare, prepararsi per la notte e dormire.
Possiamo ricavare altre informazioni essenziali nella seconda parte di questa prima giornata. Il rapporto con il figlio si mostra distaccato, l’intera cena si svolge nel silenzio, l’unica battuta è “Non leggere mentre mangi” rivoltagli dalla madre.
Finita la cena, ancora più importante sarà la lettera, che ci comunica delle informazioni importanti: veniamo a conoscenza della morte del marito avvenuta sei anni prima, scopriamo che Jeanne dice di preferir rimanere sola, ma soprattutto comprendiamo il pensiero della sorella sulle scelte e la vita di Jeanne “[…] Ma ogni tanto quando penso a te mi vengono le lacrime”. Ultimo elemento da ricordare – sul quale ritorneremo nella terza giornata – è l’avviso che la sorella le dà di un imminente regalo.
Dopo la lettera, il figlio le recita la poesia Il nemico di Baudelaire, contenuta nella raccolta I fiori del male (Le Fleurs du Mal, 1857). Oltre a essere una scena importante perché la regia ci porta a prediligere un punto di vista diverso che non ritornerà più durante il film (Fig. 3), è importante anche pensare al significato della poesia. Il nemico tratta del tempo che passa come qualcosa di crudele che ci consuma inesorabilmente, accentuando la percezione del vuoto dell’esistenza senza mai comprenderne il significato. Qui la vita è come il giardino i cui frutti un tempo rigogliosi sono ormai morti, creando uno spazio desolante. Il tempo passato quindi devasta l’anima di Baudelaire, a cui non rimane che aspettare nuovi fiori per ritrovare la gioia di vivere. L’esclamazione finale, però, è un grido disperato al nemico che consuma la vita: la noia.
Dopo questa scena, durante l’uncinetto sentiamo per la prima volta la musica diegetica, che proviene dalla radio.
E infine, l’ultimo momento su cui concentrare l’attenzione della giornata è il dialogo finale dopo la buonanotte, durante cui il figlio chiede alla madre come ha conosciuto il padre. Era successo poco dopo la fine della guerra, quando Jeanne lo aveva incontrato tramite un’amica: “Non so se volessi sposarmi, ma comunque sembrava ‘una cosa da fare’. Così si diceva.” Viene quindi offerto uno sguardo alla condizione femminile del tempo, caratterizzata da matrimoni su matrimoni dettati dall’obbligo sociale a cui era piegata la donna, condizionata alla creazione e al mantenimento di una famiglia. Jeanne aggiunge inoltre che le zie la incitavano al matrimonio poiché l’uomo aveva i soldi ed era bello, ma che cambiarono presto idea quando il giovane perse tutto il suo denaro; oltre che povero, quindi, si trasformò magicamente in un uomo dal brutto aspetto ai loro occhi, ma Jeanne lo sposò comunque. Dopo una serie di domande, di impercettibile allarme è l’affermazione del figlio: “In ogni caso, se io fossi donna, non potrei mai fare l’amore con qualcuno di cui non fossi innamorato.” È qui che la Akerman, con una sola frase, ci dispiega uno scenario di potere dove l’uomo può permettersi una vita sessuale anche al di fuori dell’amore, prendendosi il diritto di una condotta che non può essere messa in discussione. E la donna? La donna può avere solo una vita sessuale dettata dall’amore, non può e non deve avere la condotta degli uomini, e con quel “se io fossi donna” avviene uno squarcio nella quiete che gioca sulle dinamiche di lotta tra sessi, a cui Jeanne risponderà, “Ma come fai a saperlo? Tu non sei una donna.” La conversazione finisce lì ed entrambi vanno a letto. Una didascalia recita Fine del primo giorno.
2. Seconda giornata: Rottura nello schema
La giornata inizia e procede con mansioni per la casa e per il figlio, al quale Jeanne lucida le scarpe e prepara la colazione. In seguito esce e continua a svolgere faccende per la casa quali la spesa, portare delle scarpe rotte del figlio dal calzolaio, andare alle poste e così via. Ciò che risalta è come Jeanne, fino ad ora protagonista dell’inquadratura, all’esterno finisca per diventare anonima: campi lunghi costellano queste uscite, la sua figura diventa piccola, importante quanto i passanti per la città. Tornata a casa, la donna fa i primi preparativi per la cena e poi un’amica (di cui non vediamo il volto) le chiede di tenere il figlio neonato giusto il tempo necessario per svolgere qualche commissione. A seguire ci sono due scene importanti: la prima è Jeanne che per la prima volta vediamo mangiare da sola, e vediamo che mangia solo un toast, piccolo indizio di come, al di fuori del figlio, non si curi dell’alimentazione, mangiando poco o nulla. La seconda è quando la vicina ritorna a prendere il proprio figlio e si intrattiene in un dialogo, chiedendo cosa farà da mangiare stasera, al che Jeanne risponde, “Il mercoledì c’è cotoletta di vitello, carote e piselli”. L’amica si lancia in un monologo (voce della Akerman stessa) in cui esprime tutto il disagio nel mangiare gli alimenti che deve cucinare per i bambini, e soprattutto il disagio nelle scelte del marito che impone che i bambini tornino a casa da scuola per pranzo perché il cibo non è dei migliori e sono troppo piccoli. “Però le dico, se dipendesse da me… Lui starà via tutta la prossima settimana. […] Io starò da mia madre. Molto lontanada scuola. Loro dovranno restare in refettorio. Si abitueranno a mangiare con gli altri bambini. È meglio. E mio marito non potrà dire nulla.” Di nuovo, sono dinamiche di potere che si sfumano in dettagli, ma che danno un lampante scenario di prevaricazione maschile sulle scelte di gestione della famiglia.
Jeanne si prepara, mettendo il rossetto e pettinandosi; fa le ultime compere e si reca in un bar. Rientrata a casa, inizia a preparare la cena, ma poi arriva un altro uomo con cui consuma il rapporto. Siamo esattamente a metà film e, dopo aver familiarizzato con tutti gli schemi di Jeanne grazie a una regia e un montaggio che ci hanno fatto addentrare nella vita domestica della donna, possiamo notare tutti i dettagli.
È qui che avviene la rottura: Jeanne lascia aperto il vaso in cui ripone i soldi; dopo aver sistemato la camera, esce lasciando la luce accesa; in bagno, spegne la luce ma lascia la porta aperta; torna in camera e uscendo lascia la luce accesa, per poi tornare in bagno, dove lascerà la luce accesa un’altra volta. Quando arriva in cucina si ricorda e torna indietro per spegnerla, e qui la regia ci offre un’altra volta un punto di vista privilegiato rispetto al registro registico solito, ovvero un piano americano che ci permette di vedere il volto di Jeanne visibilmente disturbato dalla dimenticanza (Fig. 4); e poi ancora caos, le patate son da buttare, così la donna inizia a girare per la casa, le butta, torna in camera a spegnere quella luce accesa da prima.
Le patate sono finite, quindi per farle esce a comprarle e ritorna in casa. Qui, con un long take che ci mostra Jeanne che pela le patate, vediamo il suo sguardo perso che inizia ad avere i primi segni del vacillamento, cardine della seconda parte del film. Jeanne perde l’unica cosa di cui aveva il controllo, la casa.
Il figlio torna a casa e l’unica osservazione che fa è di carattere estetico: “Sei tutta spettinata.” Un commento molto simile a quello che farà il giorno successivo, quando Jeanne dimenticherà di abbottonare un bottone della vestaglia: “Il tuo bottone.” Tutto questo aggiunge una sfumatura all’educazione di stampo patriarcale, che ancora una volta passa per dettagli quasi impercettibili. La cena si svolge sempre nel silenzio. Il figlio ancora una volta si mette a leggere e smette solo quando Jeanne lo invita nuovamente a non leggere mentre si mangia. Il tutto poi procede come la sera precedente: Jeanne sparecchia, il figlio si mette a leggere, accendono la radio, Jeanne prima svolge delle commissioni poi cuce per un po’ all’uncinetto, escono per due passi, rientrano e si preparano per dormire.
Prima di dormire, è un altro dialogo – sempre come la sera precedente – a riempire la scena, stravolgendo il silenzio in cui siamo immortalati. Il figlio racconta di come sia venuto a conoscenza da bambino dei rapporti sessuali e abbia odiato in quel periodo il padre per quello che faceva alla madre. Tra le frasi più importanti è ciò che gli viene riferito da un suo amico: “Dice che il membro dell’uomo è come una spada, e quanto più va in profondità, meglio è. Io ho detto: una spada fa male. Allora lui ha detto ‘Sì… Ma sai, è come un fuoco’. Allora dove sta il piacere?” Siamo sempre qui, prevaricazione dell’uomo sulla donna: laddove l’uomo impone i propri piaceri anche sulla donna, non vi è mediazione per un rapporto a parità di piacere; c’è il piacere dell’uomo da una parte e deve esserci la rassegnazione e accettazione della donna dall’altra.
Jeanne non vuole parlarne e chiude la conversazione salutandolo.
Una didascalia recita Fine del secondo giorno.
3. Terzo giorno: Caos, Apoteosi e Catarsi
Il terzo giorno è quello del caos definitivo. Dopo essersi svegliata, Jeanne si mette la vestaglia e, come ho già anticipato precedentemente, dimentica di abbottonare un bottone. Va in bagno e si dirige poi ad accendere la stufa in salotto, rendendosi conto però di non aver né spento la luce, né aver chiuso la porta del bagno. Lucida le scarpe, ma le sfugge di mano la spazzola che cade a terra (Fig. 5).
Dopo la colazione, il figlio va via e Jeanne inizia a sistemare i suoi vestiti, che lascia per terra (riordina tutto come fa sempre per gli uomini, dal figlio ma anche dai clienti a cui prende i cappotti e adagia personalmente in un attaccapanni). Altri segnali del caos: nel lavare i piatti, lascia del sapone in un piatto non sciacquando bene, e mentre asciuga le posate le cade un cucchiaio per terra. Esce di casa per delle commissioni e rientra iniziando a preparare la cena. È nella scena successiva che abbiamo un’altra sfaccettatura del personaggio. Jeanne non ha più commissioni da svolgere, e in questo momento che potrebbe dedicare a se stessa rimane a tavola a fissare il muro. Così avverrà anche successivamente, quando prima di decidere di pulire l’argenteria si fermerà sulla poltrona del salotto per diversi minuti, per poi ritornarci un’altra volta e restarci ancora di più (parliamo di un long take a camera fissa di tre minuti circa in cui semplicemente Jeanne rimane seduta a contemplare il vuoto). Ne desumiamo la consapevolezza che Jeanne Dielman è, non a causa sua, un involucro vuoto. Jeanne è il ritratto di tante donne la cui vita è stata segnata dalla devozione totale agli uomini, in un sistema che non lasciava emancipazione o indipendenza. Jeanne non ha niente se non la cura degli uomini e di se stessa, ma alla fine il destinatario rimane sempre lo stesso: l’uomo. L’unico “controllo” che ha è quello della casa, e nell’ultimo giorno e mezzo che osserviamo perde pure questo, venendole privato così l’unico appiglio alla vita, l’unico oggetto di sua appartenenza.
A interrompere questo oblio è il citofono, la vicina che le affida nuovamente il figlio. Qua Jeanne cerca di giocare con il bambino e riscattare almeno l’aspetto materno, ma fallisce, con il piccolo che continua a strillare e piangere. Dopo svariati tentativi, la donna rinuncia, andando a mangiare il solito toast in cucina e perdendosi ancora una volta in un oblio. Qui la distruzione è completa, non c’è più nulla di Jeanne né come madre né come donna e soprattutto come individuo. C’è un risveglio, sì, ma alla fine Jeanne esce da una prigione piccola per entrare in una più spaziosa. Quando la vicina ritorna a prendere il figlio, Jeanne incarta un giubbotto del figlio per trovare un bottone che manca uguale agli altri. Qui esce dall’oblio, ma è un’uscita illusoria, fallace, per rientrare sempre nel servizio del figlio.
Dopo aver girato e non averlo trovato, torna nel bar visitato in precedenza e qui il posto del giorno prima è occupato (Fig. 6); capiamo dunque che era un posto abituale. Non c’è neanche la cameriera solita, della quale Jeanne chiede informazioni. È un’altra alterazione della sua realtà, costellata di moduli circolari a cui si aggrappa disperatamente.
Rientrata a casa, finalmente trova nella posta – che aveva controllato diverse volte dalla prima sera – il regalo della sorella. Sembra esserci dell’impazienza nei gesti a tratti frenetici di Jeanne, un’attesa di una straordinarietà, di senso fuori dall’ordinario, che si conclude tristemente. È una vestaglia rosa, da casalinga, non molto diversa da quelle che Jeanne ha indossato per tutto il film nell’ambiente domestico. La vestaglia riveste il suo status sociale, e così una vestaglia è per la Akerman un simbolismo di prigione; a colpire, forse, sono tutte quelle vestaglie molto colorate in contrasto con la mutilazione che esercitano.
E così arriviamo al finale dell’opera.
Tornata a casa, Jeanne riceve un altro cliente, e avvertiamo qualcosa di strano perché ora vediamo il rapporto, non ne rimaniamo fuori come siamo stati abituati. È un rapporto straziante, durante cui Jeanne rimane inizialmente impassibile a fissare il vuoto attendendo la fine, per poi dimenarsi e coprirsi il volto con le coperte, come a non voler vedere e rifiutando il rapporto stesso. Consumato l’amplesso, Jeanne, sistemandosi allo specchio, cade con l’occhio su un particolare: all’inizio pensiamo sia la foto del matrimonio, credendo quindi che possa nascere un senso di colpa, ma in realtà capiamo essere le forbici dietro a essa (Fig. 7). Jeanne uccide il cliente. Il finale è un long take, sempre camera fissa, di sette minuti di Jeanne seduta al buio in salotto. È l’apoteosi, una vita di soprusi che scoppia in un assassinio che diviene un omicidio simbolico di tutte le figure maschili nella sua vita. È certamente una catarsi estrema e che ricorda quella delle tragedie greche, perché solo così può arrivare una parziale liberazione da una vita rovinata dagli uomini. Jeanne è e rimarrà sempre una vittima del sistema patriarcale. Le sue espressioni oscillano dal sollievo, con sospiri e sorrisi, alla totale vacuità. La liberazione c’è, ma è pur sempre all’interno di una gabbia da cui è impossibile evadere.
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles è un’opera che usa un registro registico rivoluzionario, con un apparato che non è mai stato utilizzato nuovamente con la stessa maestria e che è stato di ispirazione per molti registi (la camera fissa che rimane all’interno di un ambiente anche se il personaggio ne è uscito, aspettando che rientri, ricorda molto Michael Haneke). Un urlo silenzioso della condizione femminile che il film, nella sua sottigliezza, scandaglia in tutti i suoi aspetti. Ma oltre che femminista, potremmo definirlo anche un film anticonsumismo, dotato di un’economia dello sguardo, vista la povertà della scenografia e un montaggio che va contro ogni logica di ritmo dell’industria. Il risultato è una sperimentazione riuscita totalmente.
La possibilità io gliel’ho data e, come ho detto, il rammarico è di non averlo fatto prima. Ora però tocca a voi.

Lascia un commento