IL WESTERN REVISIONISTA – UN’INTRODUZIONE

Questa voce fa parte 29 di 32 nella serie N1 2025

APPROFONDIMENTI

Di Giovanni “Fusco” Pinotti

Paesaggi aridi e sconfinati, una frontiera da conquistare dove vige la legge della pistola, solitari cavalieri erranti, piccole cittadine che formano un microcosmo quasi a sé stante rispetto alla loro controparte urbana, drammi morali che si dipanano sullo sfondo dell’eterno scontro tra la vita selvaggia e l’incombente quanto ineluttabile arrivo della civilizzazione; tutto questo e molto più ci viene in mente quando pensiamo al western, genere (non solo) cinematografico squisitamente ed essenzialmente statunitense. Eppure, nonostante gli elementi elencati siano fondamentalmente onnipresenti nei film con i cowboys, a un certo punto si è verificato all’interno del filone (come sempre accade quando un genere prosegue per così tanto tempo) un radicale cambiamento di prospettiva, una vera e propria revisione non solo della forma cinematografica tipicamente associata al western, ma anche (e soprattutto) dei contenuti e dei valori da esso presentati. I già menzionati leitmotiv diventano quindi armi stilistiche con cui i nuovi registi abbattono i canoni ideologici del genere forse più classicamente associato agli ideali americani.

Il western classico, presente nelle sale cinematografiche sin dagli albori del mezzo stesso (anche per ovvie contingenze storiche, tenendo presente che l’espansione territoriale mirante alla frontiera termina nei primi anni Dieci del Novecento, a cinema già avviato), era un riflesso ingenuamente convinto e ideologicamente motivato del “destino manifesto” statunitense, pilastro ideale dell’imperialismo a stelle e strisce, il quale vedeva nella colonizzazione dell’Ovest tanto un dovere morale quanto un imperativo categorico. Ciò che dunque poteva apparire, sia agli spettatori dell’epoca che a noi “moderni”, come un genere di puro intrattenimento, recava piuttosto con sé chiarissimi e nient’affatto subliminali messaggi politicamente orientati, ergo la presentazione dei coloni (rigorosamente bianchi e pii) come missionari investiti di una missione divina di civilizzazione e la caratterizzazione, finalizzata alla disumanizzazione, dei Nativi come malvagi, feroci e spietati barbari senza dio assetati di sangue (queste rigide divisioni tra popolo eletto e barbari non possono non ricordare qualche tragico evento contemporaneo, prova della perdurante perfidia del colonialismo attraverso i secoli). Il western è quindi non solo il genere americano par excellence, ma anche un genere inerentemente e profondamente politico, sullo sfondo del quale si possono dispiegare i grandi drammi morali e le suggestive scene d’azione precedentemente evocate.

Proprio la natura squisitamente politica del genere si presta alla ridefinizione dei suoi canoni. Nonostante sin dai suoi inizi questo filone abbia generato qualche sporadico tentativo “progressista”, è a partire dal mutamento del clima socioculturale e produttivo che si verifica la revisione, intesa come adeguamento di un genere ideologicamente vetusto allo Zeitgeist. Cosa si intende di preciso con questo? A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, come è ben noto, il mondo occidentale viene investito dall’ondata dei movimenti di protesta e controcultura (prevalentemente) giovanili, i quali richiedevano un cambiamento in senso progressista delle strutture politiche ed economiche del sistema vigente, motivati anche dal desiderio di un allentamento della tensione provocata dalla guerra fredda e da un sincero pacifismo e antimilitarismo, che si concretizzavano soprattutto nella forte opposizione nei confronti della guerra imperialistica condotta dagli Stati Uniti nel sud-est asiatico.
Come se non bastasse, anche a livello di produzione cinematografica si stavano verificando cambiamenti nella struttura del moviemaking: dapprima la celeberrima sentenza antitrust Paramount del 1948 aveva messo la parola fine al vecchio sistema produttivo, poi l’avvento della televisione aveva ulteriormente indebolito la tradizione hollywoodiana. Con il definitivo rimpiazzo del Codice Hays, celebre per i suoi discrimini di contenuti accettabili o meno, il terreno viene definitivamente preparato per una nuova generazione di registi, pienamente inseriti nella (contro)cultura del periodo e forti di una profonda e appassionata cinefilia: nasce così la New Hollywood, destinata a ridefinire i canoni produttivi e a dominare per quasi vent’anni e a fasi alterne il grande schermo.

I nuovi autori hollywoodiani, nonostante tutto (e giustamente) amanti del cinema classico hollywoodiano e di conseguenza anche di maestri del genere quali John Ford, Howard Hawks e Anthony Mann, non tardano quindi a mettere mano al western per cambiarne radicalmente le strutture, anche influenzati dal cinema europeo e nipponico, nonché dalla “bastardizzazione” subìta dal filone a opera dei registi italiani. Il western revisionista diventa perciò occasione non solo di innovative sperimentazioni formali, ma anche di messa in discussione dei valori bianchi americani, da cui:

  • una caratterizzazione sempre più psicologicamente complessa dei personaggi, con protagonisti moralmente ambigui nelle vesti di antieroi o antagonisti dalle qualità positive;
  • una profonda sintonia nei confronti dei Nativi americani, presenti in ruoli più di rilievo e considerati talvolta come vittime di un brutale genocidio, altre volte come coraggiosi guerrieri;
  • parti più significative per le donne, non più (o perlomeno non solo) oggetti inermi del desiderio maschile;
  • l’enfasi sulla spietatezza della natura selvaggia, in antitesi sia con la missione civilizzatrice dell’uomo bianco che con la conseguente industrializzazione del territorio;
  • una più o meno velata critica al capitalismo e all’aggressivo imperialismo statunitensi.

Nel corso di questo approfondimento, che proseguirà per altri cinque numeri, esploreremo insieme l’evoluzione del western revisionista in un periodo compreso tra gli anni Cinquanta e i primi anni Novanta, cercando di dare le basi per comprendere l’affascinante sviluppo attraversato dal genere. Obiettivo del percorso è un’indagine che si concentri esclusivamente sul cinema nordamericano del periodo già menzionato, ergo l’esclusione dall’analisi (ma non dalla menzione funzionale alla costruzione del contesto) di western italiani o europei e di film non compresi in questo intervallo temporale, i quali però potranno essere in futuro oggetto di un altro approfondimento; escluderò dal nostro viaggio cinefilo anche le ramificazioni weird, space, acid, horror etc. del genere, per quanto mi renda conto che siano estremamente interessanti e degne di uno spazio a parte.
L’approfondimento, come già accennato, sarà suddiviso in cinque parti, in ordine:

1. Preparare il terreno: L’amante indiana (Broken Arrow, Delmer Daves, 1950) e Mezzogiorno di fuoco (High Noon, Fred Zinnemann, 1952);
2. L’esplosione della New Hollywood: Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid, George Roy Hill, 1969), Il piccolo grande uomo (Little Big Man, Arthur Penn, 1970), Soldato blu (Blue Soldier, Ralph Nelson, 1970), I compari (McCabe & Mrs. Miller, Robert Altman, 1971), Corvo rosso non avrai il mio scalpo! (Jeremiah Johnson, Sydney Pollack, 1972), Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid, Robert Aldrich, 1972) e Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, Robert Altman, 1976);
3. Sam Peckinpah: Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969), La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970) e Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973);
4. Clint Eastwood: Lo straniero senza nome (High Plains Drifter, 1973), Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales, 1976) e Il cavaliere pallido (Pale Rider, 1985);
5. Mettere fine al western: I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, Michael Cimino, 1980) e Gli spietati (Unforgiven, Clint Eastwood, 1992).

Conclusa questa breve e sommaria presentazione introduttiva e nella speranza di aver suscitato la vostra attenzione e stimolato la vostra voglia di partecipazione, non mi resta che invitarvi a sellare il cavallo, caricare il vostro revolver e prepararvi un bel bicchiere di whiskey: il (nuovo) vecchio West ci attende.

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Autore

  • Tanto tempo fa (il 1998), in una galassia lontana, lontana (la Lombardia), nasceva Giovanni “Fusco” Pinotti, detentore dell’onore e dell’onere di essere co-direttore e caporedattore della rivista Le Voyage Dams la Lune. Tra le sue passioni cinematografiche figurano il western, la fantascienza, l’horror gotico, il tridente Leone-Eastwood-Morricone, Akira Kurosawa ed Elio Petri. Quando non scrive o parla di settima arte, è impegnato ad ammorbare i suoi conoscenti con filippiche marxiste o a giocare con il suo cane Ben.

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