HERE

Questa voce fa parte 14 di 32 nella serie N1 2025

NUOVE USCITE

Di Riccardo Morrone

Dopo Le Streghe (The Witches, 2020) e l’irricevibile live action Disney del 2022 Pinocchio (arrivati entrambi direttamente in streaming), Robert Zemeckis torna al cinema, ma soprattutto torna a fare grande Cinema.
Cimentandosi nell’insidioso adattamento della celebratissima graphic novel di Richard McGuire, modella un’opera affascinante che, a partire da un’intuizione geniale, rielabora l’avanguardia artistica (ormai il passato) ed esplora quella tecnologica (il futuro?).

Non la solita riflessione sul tempo che passa, ma un quadro – unico e vivacemente statico – sulla trasformazione dello sguardo, intesa contemporaneamente come perdita e
ri-acquisizione.
Fissato un punto nello spazio, Zemeckis si muove avanti e indietro nei decenni e nei secoli per ripercorrere, dalla preistoria al tempo presente, la vita di un luogo e di chi l’ha “occupato”. Così, Here concatena e sovrappone almeno cinque storie, riservando un ruolo di privilegio alle due generazioni della famiglia Young.
È un film, dunque, che prosegue (o retrocede) per istantanee, piccoli quadri familiari in grado di mostrare l’intima complicità di una coppia (l’inventore e la consorte) o la preoccupazione di un’altra (i due genitori afroamericani), l’ostinazione di un pioniere dell’aviazione e persino il conflitto paterno di William Franklin (figlio illegittimo e lealista di Benjamin).

Ritorno al Passato. Una formula fin troppo scontata ma calzante per descrivere questa pellicola, almeno su due livelli: da una parte, il ritrovato contributo, a trent’anni di distanza da Forrest Gump (1994), dello sceneggiatore premio Oscar Eric Roth, come pure della fotografia di Don Burgess e della colonna sonora di Alan Silvestri; ma soprattutto, la presenza di Tom Hanks e Robin Wright nei panni dei protagonisti Richard e Margaret, corpi e volti attoriali già di per sé depositari del segno del tempo, un “salto” accentuato dal de-aging (qualitativamente altalenante) a cui sono sottoposti. Un ringiovanimento peraltro realizzato con il motore AI VFX Metaphysics, a testimoniare l’ennesima sperimentazione tecnologica della carriera di Zemeckis, la sua ennesima esplorazione delle floride frontiere del digitale.
Dall’altra parte, c’è anche il ritorno a lidi tematici a lui cari: quella vecchia ossessione per il passato e il futuro e, in particolare, per il complesso Dopoguerra statunitense (già largamente ripercorso da Forrest e Marty).
Perché in Here a prendersi la scena è nuovamente il Novecento americano, un “corpo” ingombrante nello spazio e nel tempo, qui non solo evocato, ma reso nelle sfumature delle vite diverse ma uguali di chi lo ha attraversato. Un alternarsi quasi ciclico di pochi effimeri slanci in avanti (rappresentati dall’aviatore e dall’inventore), ma soprattutto di illusioni giovanili tradite, sogni dimenticati e soppressi dalla necessità di «fare soldi» e adeguarsi ad un modello di vita preconfezionato. Si noti allora l’accumulo di oggetti, di forme materiali che saturano quello spazio: divani a rappresentare stati emotivi o conflitti generazionali (come quello tra Margaret e la suocera), e poi aspirapolveri, telefoni, televisori e apparecchi tecnologici di ogni tipo.
E soprattutto fotocamere e videocamere, anche un proiettore, tutti dispositivi che, come i quadri del giovane Richard, aprono ad un’elaborata riflessione metatestuale sulla registrazione e la riproduzione del reale, sull’immagine come preziosa forma di memoria collettiva, ancor più indispensabile quando – come purtroppo capita – è la nostra memoria di singoli a deteriorarsi.

Assume così un preciso significato la presenza in scena a un certo punto di un archeologo: è l’impronta del regista stesso, la traccia del suo operare, quella di un cineasta che si fa archeologo dell’immagine. In tal senso, ciò che meglio illustra la sbalorditiva portata teorica dell’opera è di sicuro il montaggio, lo strumento cinematografico per eccellenza per controllare lo spazio e il tempo.

È un montaggio che si potrebbe definire ipertestuale, che si serve di riquadri e pop-up per restituire complessità e ritmo alla stasi di un unico punto macchina.
Viene, perciò, definitivamente scardinata la natura ipotattica del racconto a favore di una simultaneità visuale, della compenetrazione di realtà istantanee diverse che pare ripensare in termini nuovi la vastissima ricerca delle Avanguardie circa il valore concettuale del quadro e della cornice. Zemeckis, come Fontana, “taglia” la tela cinematografica, ne trascende la bidimensionalità anche attraverso il dialogo col fuoricampo. Il sonoro, il fuoricampo interno, l’utilizzo di uno specchio per aprire a ciò che sta al di là: piccole manipolazioni che contribuiscono alla costruzione di uno spazio stratificato, contemporaneamente centripeto (come la sitcom) e centrifugo (come il cinema dei Lumière). E, come è giusto che sia, alla fine la rigidità formale non può che venir spezzata, per spostare lo sguardo altrove.

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Autore

  • Classe 2003, Riccardo è pigro, nato vecchio e convinto giochista. Aspirante nullafacente, prova a studiare cinema e trascorre i suoi giorni guardando cose (dal dubbio gusto e valore intellettuale), tra il cinema e lo stadio. Ha poche, granitiche certezze: di sicuro Scorsese come ispirazione e Lionel Messi come fede religiosa.


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