FIL ROUGE: HALLOWEEN
Di Olmo Giovannini
Al cinema non si parla mai solo di finzione, specialmente nei generi più immaginifici; alcune delle icone più mostruose della storia della narrazione sono nate con lo specifico intento di incarnare temi complessi e spesso intangibili: il caso più ‘da manuale’ è certamente quello de La notte dei morti viventi (George A. Romero, 1968), nel quale il mondo bianco e borghese dell’ideale famiglia americana viene stravolto, più che dall’apocalisse zombie, dall’intrusione nelle loro vite di un uomo afroamericano. Lo zombie diventa quindi allegoria della percezione che l’America segregazionista aveva del diverso. Certe categorie del mostruoso hanno nel corso degli anni assunto specifici codici che aiutino il pubblico a decifrare il loro significato nascosto: l’alieno è sinonimo di invasione militare nemica – dalle formiche sovietiche in Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) fino a La guerra dei mondi (War of the Worlds, 2005) di Steven Spielberg, completato a soli quattro anni dall’attacco alle Torri Gemelle –, il licantropo è rappresentazione di sessualità repressa o violenta e così via. Fra tutte le creature orrorifiche, i vampiri si sono saputi distinguere come i più poliedrici: simboli di decadenza, lascivia, amore sublimato, mortalità e classismo, dal primo Nosferatu di Murnau all’ultimo di Eggers, la figura è stata riletta e aggiornata continuamente.
Non è quindi un caso che il regista cileno Pablo Larraín abbia scelto proprio il vampiro per il suo film più controverso e bistrattato: presentato in concorso a Venezia nel 2023, El Conde incarna una parabola sullo strano ruolo della critica cinematografica contemporanea, assolutamente insignificante per il pubblico generalista e capace di affossare un film già dalla sua anteprima festivaliera nel mondo degli appassionati. Il film ottenne pessime recensioni al Lido e fu travolto da una serie di insoddisfazioni che il pubblico cileno aveva maturato negli anni nei confronti del regista: a quanto pare Fabula, casa di produzione del film, appartiene ai fratelli Larraín ed è una realtà cinematografica egemonica, capace di decidere le sorti di cosa venga prodotto in Cile e cosa no. Oltre a questo, è stato più volte rinfacciato a Pablo il ruolo del padre nello sdoganamento di Augusto Pinochet: Hernán Larraín è un politico attivo nell’area della destra conservatrice cilena che continua a non condannare il periodo della dittatura. Sembrava doveroso riportare i fatti per onestà intellettuale, pur non cogliendo la correlazione fra le colpe dei padri e quelle dei figli.
Il titolare conte protagonista è appunto Augusto Pinochet, dittatore che, con il supporto logistico della CIA di Henry Kissinger, condusse uno dei più sanguinari colpi di stato della storia recente contro il governo democraticamente eletto del socialista Salvador Allende, ucciso nel 1973 all’interno de La Moneda, il palazzo presidenziale. Pinochet rimase al potere fino al 1988, quando fu costretto a concedere libere elezioni dopo pressioni internazionali ed un fallimentare plebiscito con il quale la popolazione espresse la sua volontà di democrazia. Larraín non è certamente nuovo alla figura del dittatore: ha dedicato quasi tutta la prima parte della sua filmografia a varie letture e considerazioni sul più grande trauma storico del Cile. In particolare, il film No – I giorni dell’arcobaleno (No, 2012) racconta proprio della campagna pubblicitaria che portò alla vittoria del popolo cileno contro il terrore del generale, ponendo enfasi sull’importanza delle immagini e dell’immaginario nella comunicazione politica: lo fa ricreando il look dell’epoca con grande effetto di realismo, percepibile anche nella qualità della pellicola. In El Conde, l’operazione è quasi inversa: un evocativo bianco e nero trasporta lo spettatore al di fuori della storia e astrae il racconto.

Pinochet vive. Da 250 anni ormai. Conduce una esistenza reclusa, circondato solo dalla sua famiglia e dal mare. La sua casa è una villa gotica situata su un’isola remota, costantemente ammantata di nebbia, degna delle migliori stagioni dell’originale serie TV de La famiglia Addams; anche i suoi figli e la moglie sembrano rimandare ai codici visivi e significanti di Morticia, Mercoledì e Zio Fester: si tratta di una psicotica famiglia disfunzionale, nella quale tutto ruota attorno all’ex-dittatore. Egli ha dovuto fingere la propria morte e spende le giornate immerso nella nostalgia dei tempi passati, quando godere del potere accumulato ed andare a caccia di notte era più facile. Perché chiariamolo, Pinochet è un vampiro che, annoiato dalla vita e dalla mancanza di amore – moglie e figli sono solo un fastidio, con la loro cupidigia e la loro fame di possessioni materiali – , sta cercando di lasciarsi morire di fame.
Il tono scelto dal regista è quello della fiaba nera, a tratti grottesca e truculenta, a tratti apertamente comica alla Succession (Jesse Armstrong, 2018-2023). Questa scelta stilistica è rinforzata dalla presenza di una narratrice, che attraversa il film proprio come se stesse leggendo da un libro per bambini; legge in inglese, in netto contrasto con lo spagnolo degli altri personaggi. Questo è il primo elemento femminile ad avere enorme centralità nella struttura narrativa di El Conde; il secondo riguarda la gioventù del vampiro, vissuta ai tempi della Rivoluzione Francese: colto dalla fulminante bellezza della testa mozzata di Maria Antonietta, Auguste Pinoche giura di perseguitare qualsiasi rivoluzionario nei secoli a venire. Da qui la sua ossessione per il mito della monarchia francese, dalla quale continua ad essere ammaliato anche se in esilio.
La vita del morente Pinochet si complica quando una giovane suora francese viene inviata dalla chiesa per esorcizzarlo e finalmente distruggerlo: la somiglianza con la decapitata regina è talmente evidente da risvegliare la passione del Conte; in nome di questo nuovo amore, il vampiro torna a cacciare per rimettersi in forze. L’esorcista è una figura ambigua in tutto il film, innegabilmente attratta dal mostro eppure disposta a diventare lei stessa un vampiro pur di “fare la volontà del Signore.” Il personaggio riflette alla perfezione il ruolo che la chiesa cilena ebbe durante il regno di terrore instaurato da Pinochet: inizialmente sostenitrice della cacciata dei socialisti, fu una delle prime voci a criticare la brutalità del dittatore dopo essersi resa conto dell’entità della sua ferocia. Una volta ‘convertita’ la suora, il mostro la convince a vestirsi come la sua amata regina, senza capire che la natura compiacente della ragazza è solo uno stratagemma per poterlo poi colpire al cuore. Qui interviene la voce narrante, finalmente come personaggio realmente coinvolto nell’azione.
Si tratta della madre di Pinochet, che tramite i suoi poteri infinitamente superiori lo ha tenuto in vita negli ultimi anni, lo ha fatto innamorare della giovane suora per restituirgli voglia di vivere e ora gli ordina di ucciderla e ricominciare la sua vita ringiovanendo insieme. La figura solca i mari per raggiungere il figlio, parlando nel suo distinto accento britannico, e quando viene inquadrata si rivela: è la vampirica Margaret Thatcher. Da paesana parigina cresciuta sotto la monarchia, ha imparato che il potere è la cosa più indispensabile. Dopo essere stata messa incinta da un vampiro, mette al mondo un piccolo bambino che farà grandi cose. Da ricordare il reale collegamento fra Thatcher e Pinochet, che fornì supporto militare alla Gran Bretagna durante la guerra delle Falkland contro l’Argentina. Ora, se la cosa può sembrare ridicola – e certamente Larraín gioca proprio nel campo della satira – il film nasconde una complessa riflessione sulla natura stessa del fascismo.

Certe cose non muoiono mai. Il fascismo è proprio una di queste. È parassitario e riesce a possedere qualsiasi corpo scelga di ospitarlo, è un cadavere gonfio e non-morto che si aggira fra le pagine della storia, vecchio e decrepito ma ancora vivo e incapace di morire anche se lo volesse. Il fascismo ha da sempre fatto gli interessi dei proprietari, quella classe alto-borghese che vede nella violenza politica l’utilità del difendere lo status quo: Pinochet arrivò al potere col supporto degli industriali cileni e con l’aiuto dell’Occidente civilizzato. Allo stesso modo, quando quella classe conservatrice non ha più bisogno o addirittura trova dannosi i mostri che ha creato – basti pensare al caso di Francisco Franco eliminato non dalla sinistra che lo aveva combattuto, ma dalla borghesia, i quali interessi lo avevano inizialmente emanato – essi vengono eliminati. Pinochet è stato un assassino ed un liberticida, ma non ha mai avuto la dimensione ideologica di Hitler o Perón, la sua non era una “terza via”. È stato un dittatore vampirico, perché si è nutrito del potere, dei modelli economici e religiosi altrui, della forza esterna al Cile: è stato monarca, ma è sempre rimasto dipendente da monarchi più potenti.
Thatcher è madre del mostro perché è la figura occidentale che meglio ha incarnato quella classe benestante di cui Pinochet si nutriva. È tornata ad aver bisogno del braccio armato del figliolo e lo ha convocato per ricominciare a cambiare il mondo. La tesi centrale di El Conde è che certe figure rimarranno immortali: non basta nemmeno infilargli un palo dritto nel petto per far sì che scompaiano definitivamente dalla Terra. Pinochet e Thatcher vivranno sempre finché le loro politiche e la loro memoria continueranno ad essere alimentate, un po’ come la testa di Maria Antonietta non andrà mai in decomposizione fino a quando i potenti continueranno a rispondere al popolo di ‘mangiare brioches’. Il fascismo può esistere solo in virtù della monarchia, del potere economico e del potere religioso: basta ripassare un po’ di storia italiana per capire che Larraín ha colto nel segno. El Conde fa quello che tutti i migliori film di genere si pongono come obiettivo: dare un volto odioso e tangibile a paure ataviche e a questioni complessissime. In questo senso, ha più in comune con l’originale Godzilla (ゴジラ / Gojira, Ishirō Honda, 1954) che con qualsiasi altro film di vampiri. Il Cile è stato il più grande laboratorio politico del secolo scorso, sia in positivo che in negativo: è stato sogno per molti, monito per altri.

A testimoniare ulteriormente l’urgenza della riflessione in El Conde, è dal 2019 che il popolo cileno sta cercando di liberarsi del suo passato: dopo partecipatissime proteste popolari – documentate dal film di Patricio Guzmán Cile – il mio paese immaginario (Mi país imaginario, 2022), qui nell’immagine sopra – si è votato per cambiare la costituzione del 1980 redatta da Pinochet, ancora vigente. Con uno schiacciante risultato elettorale per il sì, il Cile ha incaricato i partiti più progressisti di redigere una nuova carta costitutiva. E nonostante l’iniziale supporto, il testo è stato respinto al voto perché ritenuto troppo radicale; in seguito, con una nuova formazione del Consiglio costituzionale, questa volta col vantaggio delle destre, si è provato a riproporre un nuovo testo, anche questo fermamente respinto nel 2023 in quanto reazionario. Pinochet vive nella morte fra le pagine di quella costituzione che i cileni non riescono ad uccidere ed il suo spirito volteggia sui cieli di Santiago del Cile in cerca di nuove prede.

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