NUOVE USCITE
Di Gianluca Meotti
Dopo cinque anni di assenza dal grande schermo, Ferzan Özpetek torna al cinema con un film in cui mette tutte le sue amate attrici. In continuità con l’esperienza di Nuovo Olimpo (2023), il regista utilizza ancora una volta il medium per raccontare sé stesso, esplorando quel mondo del cinema che tanto ama, ma che ormai non esiste più.
Roma, anni Settanta. In una sartoria che crea abiti per il cinema e il teatro si intrecciano le vite delle figure che compongono il suo ricco ecosistema. Al centro ci sono Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca), due sorelle agli antipodi che dirigono l’attività e attorno alle quali ruota un universo fatto esclusivamente di donne. Si amano, si aiutano, litigano e lavorano, costruendo un microcosmo vibrante e autentico. La routine si accende con l’arrivo di Bianca Vega (Vanessa Scalera), una celebre costumista due volte premio Oscar, chiaramente ispirata a Milena Canonero. Vega sceglie proprio il laboratorio delle sorelle Canova per confezionare i costumi del suo nuovo film, ambientato nel Settecento. Durante la creazione di questo elaborato guardaroba, ogni donna della sartoria svelerà qualcosa di sé, componendo un mosaico che racconta, con la delicatezza e l’intensità tipiche di Özpetek, una femminilità complessa e sfaccettata.
Dopo l’approccio biografico di Nuovo Olimpo, intimo sia nella storia narrata che in come è stato presentato al pubblico (sulla piattaforma Netflix), Özpetek decide di ritornare nel campo di gioco che ha fatto le sue fortune: quello del racconto corale.
Lo fa portandosi dietro diciotto attrici, fra sodali e nuove fiamme, fra volti storici della nostra cinematografia come Milena Vukotic e professioniste dello spettacolo non esattamente conosciute per le loro apparizioni su pellicola, come Mara Venier.

Nonostante all’interno della sartoria la gerarchia sia molto chiara (Alberta è una Miranda Priestly mediterranea), Özpetek guarda con occhio egualitario a tutte le sue protagoniste, tentando di ricamare su ognuna un’umanità profonda e reale; umanità imbottita da voglia di libertà, situazioni familiari complesse, rimpianti amorosi e traumi vari. Pur non riuscendoci in ogni caso, come nella scelta di trasporre la problematica degli hikikomori negli anni Settanta, è proprio in virtù di questo caleidoscopio femminile che Diamanti riesce a vincere il cuore prima della testa; gioie e tragedie si mescolano, alternandosi e restituendo il ritmo emotivo di un Özpetek un po’ d’antan.

La concretezza, a tratti altalenante, della scrittura viene risollevata dalle interpretazioni vivide di alcune attrici.
Oltre alle ottime Jasmine Trinca, Paola Minaccioni e Vanessa Scalera, risaltano Mara Venier, calorosissima e perfettamente calata nel ruolo della governante, capace di donare cure materne a tutti, e Luisa Ranieri, la quale, dopo aver interpretato la spumeggiante Titti in Nuovo Olimpo (una delle note più liete del film), viene omaggiata da Özpetek, che le affida quello che, almeno nominalmente, è il ruolo della protagonista; sebbene dia il meglio di sé di fronte a personaggi più esuberanti e kitsch (come dimostra la Greta Cool di Parthenope), qui, in un ruolo più complesso e austero, raggiunge vette melodrammatiche quasi liriche, degne del miglior Sirk.
Soprattutto nei lunghi e silenziosi primi piani, Ranieri riesce a trasmettere un’intensità tale che da sola costituisce un buon motivo per vedere il film. Il suo volto pieno e sensuale, imprigionato nel ruolo di dirigente e incorniciato da un foulard verde Gucci, riesce, senza bisogno di parole, a comunicare tutta la complessità di una donna sull’orlo del crollo.
La parte del film che funziona di meno, oltre alle già citate annacquature di sceneggiatura, risulta l’espediente metacinematografico utilizzato da Özpetek: la scena di apertura con il nostro che raduna tutte le attrici intorno a un tavolo e rivela la sua idea di fare questo film è sicuramente stimolante; inoltre parrebbe mettere subito in chiaro che il film è dedicato solo a loro.

Quando poi però il regista si riappropria del centro della scena, riportando il focus su sé stesso, sembra vengano meno tutte le premesse iniziali. Non è un film su queste diciotto donne, bensì un film su Özpetek che parla di loro. Rimane sul film un’impressione di tradimento: nei confronti dello spettatore e delle sue protagoniste.

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