FIL ROUGE: HALLOWEEN
Di Giovanni “Fusco” Pinotti

Combinare due o più generi cinematografici in un solo film non è un’impresa così semplice: spesso uno tende a divorarsi (pun intended, considerato il film di cui parleremo) l’altro, oppure può capitare che gli elementi di uno siano superiori o inferiori in qualità rispetto a quelli appartenenti all’altro genere. Eppure, con il suo Bone Tomahawk del 2015, S. Craig Zahler riesce a dosare con una maestria sorprendente – si tratta del suo esordio alla regia di un lungometraggio – due correnti cinematografiche dalla spiccata “personalità”, il western e l’horror.
Nel mezzo della più desolata frontiera americana, un gruppo di salvataggio capitanato dallo sceriffo Franklin Hunt (Kurt Russell) si imbarca in una missione di soccorso per recuperare alcuni sfortunati cittadini della piccola Bright Hope, rapiti da una tribù di cannibali incestuosi, i Trogloditi. La spedizione della posse si trasformerà in una lenta e macabra discesa verso gli Inferi quando lo sceriffo e i suoi entreranno a contatto con il terrificante clan.
Il primo film di Zahler, qui anche sceneggiatore e compositore – insieme a Jeff Herriott – delle ottime musiche, riesce a dar vita a delle atmosfere lugubri e inquietanti sin dalla prima scena, quando due banditi si imbattono in un sito di sepoltura sacro dei nativi e uno di loro incontra la propria fine per mano degli agghiaccianti Trogloditi. La frontiera del West messa in scena dal regista viene spogliata di qualsiasi speranzoso romanticismo fordiano, preferendo la creazione di un mondo cinico, selvaggio e violento che parrebbe più ricordare i contributi offerti al genere da Sam Peckinpah; la stessa posse messa in piedi dallo sceriffo Hunt, interpretato da un Russell in forma smagliante (e che, due mesi dopo, sarebbe stato uno dei protagonisti di un altro western strepitoso e atipico, The Hateful Eight di Quentin Tarantino), ricorda le atmosfere e i legami virili dei gruppi di fuorilegge a cui ci hanno abituato capisaldi come Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969), Pat Garrett e Billy Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973) e Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, 1962).

Ciononostante, la struttura fordiana è ancora forte e viva in Bone Tomahawk: esperti del genere e appassionati di cinema avranno già notato una trama che richiama quella di un altro capolavoro, Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956); anche nel film di John Ford, infatti, un piccolo drappello di pistoleri si addentra in terra indiana per trarre in salvo una vittima rapita. Bone Tomahawk riesce a preservare, se non a replicare, il respiro epico della pellicola fordiana, mantenendo intatto lo spirito di una frontiera che parte da Ford e si trasforma lentamente in qualcosa di più simile, per cinismo e brutalità cosmica, a Meridiano di sangue, uno dei più grandi capolavori della letteratura statunitense, firmato da Cormac McCarthy (Blood Meridian; or, The Evening Redness in the West, 1985).
A distanziare la pellicola di Zahler dai suoi chiari riferimenti western, tuttavia, ci pensano atmosfere che, come anticipato, appartengono più all’horror, e in particolare al cannibal movie italiano. Le influenze sul film delle opere di Ruggero Deodato, Cannibal Holocaust (1980) in primis, sono importanti tanto quanto quelle del western e si fanno sentire anche a partire dal design del clan dei Trogloditi, i cannibali incestuosi completamente dipinti di bianco, spettrali e silenziosi, quasi goffi e ingenuamente inconsapevoli nell’esecuzione delle loro barbariche pratiche. L’orrore di Bone Tomahawk arriva lentamente, viene annunciato da un montaggio preciso e lento, da dialoghi e ambienti che preannunciano una inevitabile discesa nella follia cannibalesca.

Quando finalmente la vera violenza arriverà sullo schermo, non lascerà prigionieri. Lo splatter cruento del film di Zahler è memorabile tanto per l’intenso impatto della brutalità, conseguenza di una precisa costruzione portata avanti per tutta la pellicola, quanto per la cruda autenticità degli effetti speciali, rigorosamente non digitali. Anche i più desensibilizzati alla violenza cinematografica non potranno dimenticarsi facilmente la scena di Bone Tomahawk e le immagini sconvolgenti che investiranno lo spettatore una volta incontrati i Trogloditi, i quali paiono vivere in una dimensione alternativa, un mondo parallelo rispetto al resto degli Stati Uniti che pare essersi arrestato alle più oscure ed esoteriche tradizioni preistoriche.
Con le sue due ore e dodici minuti di durata, la pellicola di Zahler è insolitamente lunga per un film di genere, soprattutto per un horror; eppure, di nuovo, il macabro ambiente da egli raffinatamente immaginato e inscenato, fatto di personaggi affascinanti (come il vecchio e simpatico vicesceriffo Chicory interpretato dal grande Richard Jenkins, il pistolero gentiluomo John Brooder interpretato da Matthew Fox e il claudicante Arthur O’Dwyer interpretato da Patrick Wilson, marito di una delle donne rapite dai Trogloditi) e scene a dir poco agghiaccianti, riesce ad alleviare il potenziale peso della durata fino a non farlo sentire affatto, regalando un’esperienza indimenticabile e dimostrando la capacità del genere – o dei generi, quando si tratta di combinazioni di questo tipo – di dar vita a un cinema di alta qualità.

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