NUOVE USCITE
DREAMS
Di Gianluca Meotti
Di Sesso, di Sogni e d’Amore. Dopo aver presentato alla Berlinale 2024 Sex e allo scorso Festival di Venezia Love (Kjærlighet), arriva ora Dreams (Orso d’oro a Berlino pochi mesi fa), l’ultimo capito della trilogia sulle relazioni di Dag Johan Haugerud, ambientati tutti nella Oslo di oggi. Tre film a sé stanti ma che raccontano un modo e uno sguardo contemporaneo e trasversale sull’affettività, dando l’impressione di respirare la stessa atmosfera e di condividere lo stesso universo narrativo, come fu per Bleu/Blanc/Rouge (1993-94) di Kieślowski.
Dopo quattro lungometraggi, Haugerud ne gira tre in pochi mesi, comprese le rispettive preproduzioni, e li monta di notte con il sodale Jens Christian Fodstad; il senso dell’ambizione è tutto lì da vedere e colpisce quanto (almeno gli ultimi due) risultino efficaci ad andare dove vogliono andare. Dei tre Dreams risulta anche essere l’unico film intitolato al plurale (anche nella versione originale Drømmer significa “sogni”), indizio di partenza da non sottovalutare vista la peculiare struttura dell’opera, ma anche in chiave interpretativa, che ritorna utile per cogliere le sfaccettature di una sceneggiatura più che stratificata.
Johanne (Ella Øverbye) è una ragazza di sedici anni che si innamora perdutamente della sua supplente di francese Johanna (Selome Emnetu). La natura del sentimento della giovane è quello totalizzante adolescenziale e riduce ogni aspetto della sua vita a ciò che riguarda la sua insegnante. Trasformata la loro “relazione” in un diario che poi potrebbe diventare un libro, Johanne fa leggere il manoscritto prima alla nonna Karin (Anne Marit Jacobsen), poetessa che incoraggia la nipote a pubblicarlo, poi alla madre Kristin (Ane Dahl Torp) che, passato lo sconcerto iniziale, conforta ed incoraggia la figlia a perseguire la carriera di scrittrice.
Haugerud decide di raccontare questo amore quasi platonico nel vero senso della parola. Tutto ciò che si viene a sapere del rapporto fra insegnante e studentessa è filtrato attraverso il manoscritto di quest’ultima, ogni sensazione e ogni accadimento vengono imbibiti dalle impressioni che ne ricava chi le sta vivendo. È una forma di creazione letteraria iper-soggettiva che va a dispiegare tutte quelle emozioni, pulsioni e – per l’appunto – sogni che Johanne cela alla sua amata ma mai a se stessa, includendovi speranze e particolari erotici che possono essere scaturiti solo da un sentimento di potenza tellurica, come un primo amore a quell’età. La sceneggiatura che viene fuori da questi presupposti è fittissima in quanto a dialoghi (rohmeriana anzi che no), non solo nelle parti che riguardano direttamente la ragazza, ma anche quando il diario esce dal suo computer e finisce nelle mani della nonna e della mamma; queste intavolano una serie di discorsi che variano dalla preoccupazione per la giovane (la madre in un primo momento vuole denunciare la scuola e la professoressa immaginando che siano avvenuti contatti inappropriati) fino alla rivelazione di dettagli molto intimi sulla reciproca sessualità, in particolar modo la nonna che si diletta a lungo a parlare degli amanti a cui non si è concessa in gioventù (elemento estremamente coraggioso da inserire e che fa da specchio per quelle che sono le idee del regista).
La scelta di raccontare la propria storia in prima persona risulta estremamente efficace, anche perché l’indagine psicologica che il regista fa di Johanne è un lavoro di rara fattura. Nata dalla sinergia con l’attrice (con cui il regista ha ammesso di aver lavorato a stretto contatto: scriveva una prima bozza e la inviava all’attrice, che la leggeva e poi gliela rispediva corretta, e così via fino alla stesura finale), da sola conferisce il tono a tutto il film; non scade mai in dinamiche melodrammatiche inutili, ma mantiene uno stile distinto seppur molto emotivo, in bilico costante fra il dramma e la commedia, che è anche funzionale ai momenti in cui Haugerud decide di lasciarsi andare al sentimentalismo; come nella scena più bella del film, quando decide di tagliare sulle due improbabili amanti impegnate a provarsi dei vestiti cuciti da Johanna, con un raro e potentissimo intermezzo musicale extradiegetico in sottofondo a suggellare il momento.
Ma Dreams è soprattutto un film di donne che, armoniosamente e senza divismi, si rubano la scena. Quasi fosse un Volver (Pedro Almodóvar, 2006) tra i fiordi, anche qui tre generazioni di femminile condividono esperienze senza mai mettersi l’una contro l’altra, ma riconoscendosi unite nei cambiamenti e negli scontri ideologici. Se il centro del racconto è il personaggio di una competentissima Ella Øverbye, sono la madre e la nonna che completano un quadro che trova nelle sue interpreti la vera forza. Delegate dal regista a fare da contraltare realista alle sognanti fantasie amorose di Johanne, Karin e Kristin traghettano l’opera verso terreni più direttamente impegnati socio-politicamente ma con un approccio comico e caustico al tempo stesso. Anche qui la forza sta nell’anti-teatralità delle gestualità e nella gestione monotonale della voce, che crea quei ritmi comici tipici del cinema scandinavo; la discussione sulla presunta involuzione del pensiero femminista nata dopo l’uscita al cinema di Flashdance (Adrian Lyne, 1983) o quella sulla comparazione delle capacità sessuali dei partner passati strappano risate su larga scala, certificando ulteriormente la concretezza di scrittura di cui è capace Haugerud.
L’educazione sentimentale di Johanne si compie così, in case amorevoli e fra donne che le vogliono bene; dopo l’incontro fallimentare con lo psicologo nel finale, è chiaro che non ne aveva bisogno, e l’happy ending ne è conseguenza diretta. La traumatica scoperta del sé che viene attutita dal dialogo, con gli altri ma anche con se stessi (il libro), e che è l’unico modo – capisce la giovane – di affermare un io in divenire costante.
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