IL NOME DELLA ROSA
Di Miriam Padovan
La sola prova dell’esistenza del diavolo è il nostro desiderio di vederlo all’opera.

Nel panorama del cinema europeo degli anni Ottanta, Il nome della rosa (The Name of the Rose) di Jean Jacques Annaud si distingue come un’opera ambiziosa e visivamente straordinaria, capace di trasporre l’universo complesso e stratificato dell’omonimo romanzo (Bompiani, 1980) di Umberto Eco in una narrazione cinematografica densa di atmosfera e tensione. Uscito nel 1986, il film si presenta come un thriller storico dal forte impianto filosofico, mescolando elementi di giallo, mistero e critica religiosa con un’estetica che rievoca il Medioevo nella sua dimensione più oscura e suggestiva.
Uno degli aspetti più discussi dell’opera di Annaud è la sua interpretazione del romanzo di Eco. Se da un lato il film conserva l’ossatura narrativa e il tono investigativo della fonte letteraria, dall’altro è costretto a sacrificare molte delle speculazioni filosofiche e teologiche che caratterizzano il libro. Questo processo di semplificazione, inevitabile per adattare un testo così denso alle esigenze cinematografiche, riduce la portata delle riflessioni sulla semiotica, sul potere della conoscenza e sulla censura, temi centrali nel romanzo. Tuttavia, il film riesce a mantenere intatta l’essenza della storia: la lotta tra razionalità e oscurantismo, incarnata nel conflitto tra il francescano Guglielmo da Baskerville (interpretato magistralmente da Sean Connery) e l’inquisitore Bernardo Gui (F. Murray Abraham). La sceneggiatura (frutto del lavoro di Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard) opta per una narrazione più lineare e un ritmo più incalzante che, pur privando il film di alcune delle sfumature più raffinate del romanzo, rende la storia accessibile a un pubblico più ampio, trasformandola in un thriller avvincente senza rinunciare completamente alla sua carica critica.

Uno degli aspetti più riusciti del film è la scelta del cast. Sean Connery, con la sua naturale autorevolezza e il carisma inossidabile, dona al personaggio di Guglielmo un equilibrio perfetto tra saggezza, ironia e pragmatismo.
Accanto a lui, un giovane Christian Slater nel ruolo di Adso da Melk offre una performance ingenua e appassionata, fungendo da punto di vista dello spettatore all’interno del microcosmo monastico. Ma è il contorno di personaggi secondari a rendere il film visivamente e narrativamente indimenticabile: Ron Perlman nei panni del deforme Salvatore, Michael Lonsdale nel ruolo dell’abate e Helmut Qualtinger come monaco bibliotecario creano un mosaico umano disturbante e affascinante, enfatizzato da un trucco che esalta le loro peculiarità fisiche.

Il film riesce a evocare un Medioevo gotico e claustrofobico, grazie alla straordinaria fotografia di Tonino Delli Colli e alle scenografie di Dante Ferretti. La scelta di girare in un’abbazia tedesca (Eberbach) conferisce autenticità alla messa in scena, mentre le ambientazioni cupe, le candele tremolanti e i corridoi angusti della biblioteca creano un’atmosfera quasi da horror gotico. La biblioteca stessa, rappresentata come un dedalo labirintico e opprimente, diventa il cuore pulsante del mistero e un omaggio visivo alle suggestioni letterarie di Jorge Luis Borges, che Eco stesso aveva citato come ispirazione. Il tema del sapere proibito è reso esplicito nel simbolismo della biblioteca e nella figura del monaco Jorge da Burgos, custode del libro segreto di Aristotele sulla commedia. Il riso, inteso come strumento di sovversione e di liberazione, diventa l’elemento più pericoloso per un’istituzione che fonda il proprio potere sulla paura e sul dogma.

Nonostante le inevitabili semplificazioni rispetto all’opera originale, Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud resta un film di grande impatto visivo e narrativo. La sua capacità di coniugare il mistero con la ricostruzione storica e il fascino delle sue ambientazioni gli hanno garantito un successo duraturo, rendendolo un classico del cinema europeo. Il film, campione d’incassi in Italia e ampiamente apprezzato anche a livello internazionale, è riuscito a vincere la scommessa di portare sul grande schermo un’opera considerata difficilmente adattabile. Sebbene non possa sostituire l’esperienza della lettura del romanzo di Eco, Il nome della rosa rimane un esempio magistrale di come il cinema possa reinterpretare e dare nuova vita a un testo complesso, senza tradirne completamente l’essenza. Una pellicola che, a distanza di decenni, continua ad affascinare e a far riflettere.

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